Roberta Margiaria
Un uomo, padre di tre figli, giunge nello studio di un’analista domandandole di incontrare il primogenito, di dieci anni, affinché possa dirgli se c’è qualcosa che non va nel bambino.
L’aveva già portato da diversi specialisti: medici, pediatri, neuropsichiatri e logopedisti.
La diagnosi fatta era vaga, appariva un comportamento che era stato definito “infantile”, ma lui non riusciva a capire che cosa volesse dire. A scuola, il bambino presentava delle difficoltà, ma non troppo evidenti, dei legami con qualche compagno ma non con il gruppo classe nella sua interezza, lentezze nello svolgimento dei compiti assegnati, per lo più in matematica ed in quel momento, alla soglia della prima media, le maestre avevano suggerito di farlo seguire da qualche psicologo affinché fosse pronto per il nuovo ciclo di studi.
Riecheggia quanto Freud aveva scritto nel Caso clinico del piccolo Hans: “Mi sembra che noi diamo troppa importanza ai sintomi e ci preoccupiamo troppo poco della loro provenienza. Nell’educazione dei bambini noi badiamo soprattutto a essere lasciati in pace, a non avere difficoltà, insomma a fare di ognuno di essi un “bimbo bene educato”, curandoci assai poco di sapere se la disciplina a cui l’assoggettiamo giovi anche a lui oppure no. Perciò trovo plausibile l’idea che per Hans l’aver prodotto questa fobia fu una cosa salutare […]”.[1]
La questione etica dunque si impone a chi, orientato da Freud e Lacan, è chiamato in posizione di ascolto: come fare in modo di accogliere infatti l’invenzione soggettiva del bambino, il suo annodamento singolare per tenere insieme i tre registri reale, immaginario e simbolico, che magari può apparire “infantile” in base agli assi di un manuale diagnostico?
Contemporaneamente come riuscire ad accogliere la domanda del genitore, soggetto diviso, interrogato dallo stile del figlio, spaventato dal non trovare una diagnosi che dica ed incaselli il comportamento del bambino, senza poter far appello ad una terapia o farmacologica o comportamentale che secondo lui potrebbe far in modo che il figlio si ponga nei legami sociali come “normale”?
L’analista è chiamato ad intervenire così su più piani, credo però che l’orientamento sia sostenere il lavoro di ciascun parlessere non rendendolo oggetto di una diagnosi desoggettivante e che sottolineerebbe un minus rispetto ad una norma, avvalendosi bensì della bussola di una diagnosi che possa consentire di cogliere che cosa fa o cosa non fa più tenuta nell’annodamento. Il nord dunque è il reale e le modalità singolari per trattarlo.
All’analista, ogni volta, in ogni incontro, il compito di crear le condizioni per sostenere opportunamente l’invenzione che può portare ad un nuovo annodamento auspicabilmente accompagnato da minor sofferenza.
Spero e credo che ne avremo testimonianza nel prossimo Convegno ormai alle porte.
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[1] S. Freud, Analisi della fobia di un bambino di cinque anni (Caso clinico del piccolo Hans) (1908), Opere, vol. 5, Bollati Boringhieri, Torino 1972, p. 495.