Giovanna Di Giovanni
La diagnosi sappiamo non avere in psicoanalisi un valore nosografico classificatorio con conseguente indicazione di cura, ma all’opposto di apertura sulla posizione soggettiva del paziente e, possiamo aggiungere, su quella dell’analista.
Lacan lo dice esplicitamente: “… e si dimenticherà forse che anch’egli (l’analista) deve pagare con ciò che di essenziale c’è nel suo più intimo giudizio, per mescolarsi a un’azione che va al cuore dell’essere: solo lui dovrebbe tenersi fuori?”[1].
L’atto analitico, mai senza il rischio dell’acting out[2], richiede infatti che il terapeuta “si comprometta” e mostri la sua direzione, sia pure rivedibile, in base a cui porta avanti il discorso. In assenza di un’ipotesi diagnostica lo svolgimento delle sedute con il paziente appare infatti sbilanciato verso una fenomenologia metonimica, senza un punto di capitone che orienti a circoscrivere il reale di ogni soggetto.
E’ la costruzione che fa l’analista a dare una direzione, di necessità rivedibile e duttile, alla cura e a fare della diagnosi una “questione” in cui reperire le coordinate simboliche dell’esistenza del soggetto.
Freud, accanto al titolo dei suoi casi, pone subito la sua idea diagnostica, isteria per Dora, fobia per Hans, nevrosi ossessiva per l’uomo dei topi, paranoia per Schreber. Anche per il celebre caso dell’uomo dei lupi, tanto largamente discusso, la sua diagnosi è di nevrosi infantile, una dichiarazione che ha nel tempo aperto a divergenze e critiche.
Quindi giustamente c’è un non “capire” il caso nella sua interezza, ma contemporaneamente un aprire l’elaborazione teorica alla clinica che, Freud ripete più volte, rinverdisce la grigia teoria.
Sia Freud che Lacan ribadiscono infatti che ogni caso è nuovo e unico. La diagnosi quindi è una questione che riguarda l’analista, di volta in volta chiamato a reperire i fili di cui è tessuta la trama di vita del paziente, la struttura, per scoprirne con lui i “buchi”[3], in cui si situa la specificità soggettiva, con il suo nucleo insondabile di reale.
Vi è quindi nella cura un’oscillazione continua dell’analista nel tenere la barra della direzione della cura fra l’ipotesi di struttura e i “fini dettagli”[4] che ciascun soggetto presenta. Questo soprattutto per fare attenzione, in qualsiasi struttura, ai punti di tenuta di ciascuno e aiutare il soggetto a farne degli snodi utili alla sua forma di vita.
Per l’analista allora la diagnosi, al contrario che in medicina e psichiatria dove rimanda ad un manuale deresponsabilizzante, è uno strumento che lo implica eticamente nel suo uso, utensile necessario ma che non va da sé come una tecnica collaudata e ripetibile.
Soprattutto attualmente, quando un diffuso “sapere” psicologizzante porta all’analista situazioni in cui non appare una domanda relativa ad una conoscenza di sé e talora nemmeno una sofferenza soggettivata, ma piuttosto una richiesta di applicazione di “cura” efficace e rapida per il disagio denunciato.
Ne sono es. i disturbi somatici insorgenti nei momenti di svolta dell’esistenza, le inibizioni e fobie, le crisi di panico, improvvisi o subdolamente insorti. Ancora di più allora l’analista è chiamato a tenere la sua posizione di non sapere ma desiderante verso uno sviluppo del discorso del paziente, per saggiarne i punti di tenuta e di possibile apertura. A fare quindi della diagnosi medica, psichiatrica, psicologica, che spesso accompagna già il paziente, non qualcosa da ignorare o rifiutare a priori, ma da trasformare piuttosto in una “questione” che lo chiama ogni volta eticamente in causa.
[1] J. Lacan, La direzione della cura (1958), in Scritti, vol. II, p.582, Einaudi, Torino, 1974.
[2] J. Lacan, L’atto psicoanalitico (1967-1968), in Altri scritti, p.369, Einaudi, Torino, 2013.
[3] J.-A. Miller, Schizofrenia e paranoia (1982), “La Psicoanalisi”,n.25, Astrolabio, Roma, 1999.
[4] J.-A. Miller, Cose di finezza in psicoanalisi, (Corso 2008-2009), “La Psicoanalisi”, n.58, Astrolabio, Roma, 2016.