Giuliana Capannelli

A seconda di come orientiamo il nostro ascolto e di quello che cerchiamo come clinici, possiamo dare una direzione o un’altra alla cura di un soggetto.
Se ci fermiamo al piano del comportamento e del fenomeno sintomatico, l’oggetto del nostro agire scivolerà necessariamente nel riportare a una norma, limitare gli atteggiamenti disfunzionali e riorientare il pensiero verso contenuti più consoni alla situazione.
Al contrario, possiamo cercare nelle pieghe di un comportamento sintomatico quello che c’è di non detto e non svelato, quello che va al di là di ciò che viene mostrato e allora ci lasceremo sorprendere e guidare dalle invenzioni inedite del paziente, senza riferirci a un sapere precostituito per orientare la cura.
Questo non si può fare se non a condizione di essere interrogati e aperti a un ascolto singolare.
Nel campo dei disturbi alimentari, nonostante l’apparente padronanza che viene manifestata, difficilmente una persona che ne soffre vi saprà dire i motivi per cui ha intrapreso questa strada.
Spesso i pazienti arrivano con un punto di cecità sulla questione delle cause che attribuiscono semplicemente a un: “volevo dimagrire qualche chilo” o “non mi vedevo più bene con il mio corpo”. Né sanno dire che cosa li tiene inchiodati in quella condizione anche quando ne comprendono il risvolto negativo.
Il paziente si presenta con una nominazione sociale prêt-à-porter: “sono anoressica, sono bulimica, ho un binge, ho un disturbo alimentare” e non sa dire di più.
Questo punto oscuro, d’altra parte, può essere molto utile al terapeuta per agganciare il soggetto e sostenerlo nella sua ricerca del senso sul proprio sintomo, al fine di mettere in forma qualcosa che gli sfugge e aprire possibilità impreviste. Ma l’opportunità che un paziente può darci di lavorare con lui su un problema che gli rimane indecifrabile, non va tappata procurando subito una risposta o svelando quella che noi riteniamo sia la soluzione. Piuttosto possiamo accompagnarlo a scoprire la sua di verità.
Per questo è molto pericoloso a mio avviso procedere immediatamente con una diagnosi di restituzione ai pazienti o, ancora più semplicemente, confermare quella con cui si presentano. Le diagnosi sono strumenti di lavoro dell’operatore. Assegnare un nome proprio a un paziente tramite una diagnosi spesso non fa che rinforzare negativamente il sintomo ed impedire di fare il primo passo per accogliere il dolore e l’unicità soggettiva.