Giovanna Di Giovanni
“…egli (l’analista) è tanto meno sicuro della sua azione quanto più vi è interessato nel suo essere.” [1]
“Essa (la Scuola) è presa in un desiderio, essa accade sotto forma di desiderio prima di accadere come soggetto di diritto.” [2]
Come si declina il desiderio dell’analista, fra la cura del paziente e la comunità della Scuola ? Da queste situazioni diverse emerge un tratto comune, la solitudine. L’analista è solo “capitano” nella cura ed è solo, pur in mezzo ad altri, nella comunità Scuola. Più analisti insieme infatti non fanno una massa e nemmeno un’associazione, anche se questa può esistere burocraticamente.
Come può sostenersi allora una comunità “è il paradosso della Scuola “, che rimanda ciascuno alla propria analisi, alla visione ultima di essa, cioè che “ciascuno è solo con l’Altro del significante, solo con il proprio fantasma e con il proprio godimento,”[3]
L’espressione più radicale della solitudine soggettiva è il desiderio, che paradossalmente più spinge verso l’altro e più mostra la singolarità inviolabile di ciascuno. Due soggetti dimezzati, barrati, non ricompongono mai una sfera. L’amore, nel suo miraggio, tende a questo per scontrarsi ogni volta con l’impossibile.
Anche il transfert partecipa di questo statuto e ogni analista sa che da agalma diverrà scarto, è già scarto in potenza e ogni analizzante sperimenta per se stesso che l’oggetto prezioso attribuito all’analista non c’è.
Non esiste nemmeno una condivisione senza ombre, una comprensione senza faglia. Il malinteso alberga nella comunicazione umana.
Nell’analisi anzi, come concepita da Freud e Lacan, non ci può essere reciprocità, sempre immaginaria, non un transfert-controtransfert, ma dissimmetria irrisolvibile. Al dire cosiddetto “libero” del paziente corrisponde un ascolto altrettanto “fluttuante” dell’analista e le due “libertà” non colmano il divario e la solitudine.
L’analisi allora si può configurare come un percorso senza niente di naturale[4], anzi in certo senso contro-natura, che tende piuttosto a isolare il soggetto nella sua assoluta differenza e nel suo rapporto con l’oggetto di godimento.
Su questo non può essere l’analista a dare direttive al paziente, su come è bene desiderare e godere e in tal senso va anche inteso l’astenersi dell’analista che Freud ha teorizzato e che Lacan riprende chiaramente. Nel desiderio dell’analista l’Altro dell’intersoggettività non è più il fondamento, anzi indica il paradosso di un desiderio che tende a cancellarsi, ad essere scartato esso stesso nelle sue varie declinazioni, dal volere il bene dell’altro al furor sanandi.
E nei confronti della comunità analitica come si declina il desiderio dell’analista, ciascuno solo nel suo rapporto con l’inconscio?
Scrive J.A. Miller: “ In una Scuola tutto è di ordine analitico”, cioè tutto è “interpretabile”, e ricorda l’enunciazione del significante SAMCDA da parte di Lacan. Come l’interpretazione nella cura, anche quella a livello di Scuola richiama il giudizio e la precisione che Freud sottolineava con l’esempio paradossale del salto del leone, che o riesce o fallisce e che Lacan riprende nelle scansioni sottolineate della cura, del transfert, della Passe. In questo articolarsi della solitudine in un discorso, nella cura con il paziente e nella Scuola con gli altri analisti, la “Scuola deve preservare la sua inconsistenza e pur partecipando alla Legge dello Stato “ non è identica ad essa”.[5]
La conduzione del cammino della Scuola, attraverso le sue istanze, le sue iniziative, i suoi membri stessi non è meno delicata della conduzione della cura e richiede anch’essa un certo tirarsi indietro dal “proprio essere” da parte di ciascuno, un farsi in certo senso scarto a se stesso. Non per far emergere un collettivo di massa o anche solo una maggioranza burocratica, ma per permettere l’apparire e lo svilupparsi del discorso di ciascuno nella comunità, con il suo tratto distintivo singolare, che l’analisi personale non cancella ma al contrario evidenzia.
Occorre allora avere il coraggio del nuovo, “non rifiutare il disaccordo “, segno di differenza, come dice Anna Castallo nel suo intervento al dibattito, ma farlo fruttare come un’alterità feconda.
E’ quanto enuncia J.A. Miller nella teoria di Torino. Sono passati diversi anni da quell’evento, ma se la Scuola deve permanere e anche nella sua vitale “inconsistenza”, occorre per ognuno fare propria l’affermazione di Freud, quando indicava l’interesse nel tempo per la psicoanalisi. “Essa interesserà sempre per il suo contenuto di verità, per quanto ci insegna su quanto all’uomo sta a cuore al di sopra di ogni altra cosa – la sua stessa essenza – e per le connessioni che mette in luce fra le più diverse attività umane ” [7], scriveva Freud, sintetizzando così anche l’intrecciarsi per la psicoanalisi di clinica e politica.
[1] J. Lacan, La direzione della cura in Scritti vol. II, Einaudi, p. 583.
[2] J.A. Miller, Teoria di Torino sul soggetto della Scuola, Intervento del 21 maggio 2000, p. 2.
[3] ibidem, pp.8 sgg.
[4] S. Cottet, Freud e il desiderio dello Psicoanalista, Borla, p. 16.
[5] J.A. Miller, Teoria di Torino, cit. p.7.
[6] ibidem, p.8.
[7] S. Freud, Schiarimenti, applicazioni, orientamenti, in Introduzione alla psicoanalisi (1932), Opere, Boringhieri, p.261.