Francesca Duro
La solitudine del soggetto contemporaneo coglie sempre meno l’invito della psicoanalisi, che nel suo contrastare il conformismo dilagante può aprire al soggetto la facoltà di scegliere un percorso diverso, nell’assunzione della propria singolarità, fino a farsi attore autore della propria vita. Il desiderio dell’analista opera, nella sua azione di disturbo o di sostegno delle difese in relazione al reale, affinché un reale del tutto singolare possa essere raggiunto. Ma la scommessa della psicoanalisi sta proprio nella modalità di tener conto e sapersi sintonizzare con la soggettività di questa epoca.
Nel suo aprirsi ad altri linguaggi, in un reciproco arricchimento, può farsi partner del soggetto contemporaneo.Così l’arte può farsi mediatrice di un discorso atto ad aprire nella sua modalità creatrice, legata alla sublimazione, a un sentire diverso, a nuove forme di riflessione dove l’artista sa far emergere in modo più immediato, ciò che per la psicoanalisi richiede un giro più lungo. L’opera d’arte ci attira, perché sollecita i –fi individuali nelle persone, risparmiando il dolore che comparirebbe e portando, invece, il soggetto a raggiungere direttamente il piacere.
L’apporto di Joyce alla psicoanalisi nella sua creazione artistica di Finnegans Wake sta proprio in ciò che Lacan seppe estrarre dal suo particolare uso del simbolico, al di là del senso. Nel suo romanzo, una scrittura singolare prende vita nel saper trovare sostegno nel ritmo e nel suono de lalingua, quale modalità di fronteggiare l’effetto del traumatismo del linguaggio sul corpo. Joyce crea così una forma nuova di letteratura: -dal godimento opaco come il godimento del sintomo, elevato alla dignità della Cosa in quanto oggetto artistico.- Attualità Lacaniana – n 21 -2017-Affetti dal linguaggio
Se ci avviciniamo all’arte pittorica, l’Urlo”di Munch produce in chi lo guarda una certa angoscia e come Lacan evidenzia: -il grido produce il baratro in cui si scava il silenzio.- Lacan, Le seminaire. Livre XII.Il vuoto nell’arte ha funzione di organizzare il reale simbolicamente, creando intorno a questo vuoto una qualche attesa, per farsene qualcosa.
Potremmo in qualche modo avvicinare l’AE, che nel cercare di estrarre nella sua testimonianza quell’indicibile di un godimento non più interpretabile, legato all’impatto del significante sul corpo, all’artista, che nella sua creazione si spinge a trasmettere una traccia, di qualcosa che va oltre la consistenza logica. Serve dunque metterci del proprio, in un saperci fare dove è possibile trasformare le proprie impasse della civilizzazione a chance, a leva per rispondere al disagio che la modernità presenta. Il desiderio dell’analista non è senza il suo atto che, come per Lacan nel suo atto di fondazione, spinge ad operare una scelta radicale, che taglia tra un prima e un dopo. In questo suo sorprenderci, l’atto ci sorpassa in quell’unica risposta che è possibile dare, in assenza di garanzia, poiché non ha a che fare col sapere, anche se può produrre un’ interrogazione.
Si può scorgere allora in tutta la sua dignità, la lezione più propria dell’arte, solo nella misura in cui l’artista non indietreggia di fronte al reale del trauma, nel suo atto che lo sorprende, lo chiama a un punto limite nel quale viene a trovarsi, per farsi carico del suo oltrepassamento.
In tal senso potremmo pensare a Picasso, che in Guernica rappresenta il bombardamento dei nazifascisti sulla città basca, o a Burri che dopo il terremoto in Belice del ’68 che rase al suolo Gibellina, procede alla costruzione del grande Cretto, scegliendo nell’implicazione del discorso che gli è proprio, di non operare alla ricostruzione ma di lavorare sulle macerie della città distrutta, incorporandole con una gettata di cemento bianco, lasciando visibili tracce di vicoli e strade, senza distanziarsi dal luogo dove l’orrore si è manifestato in tutta la sua devastazione.
Atto etico, che avvicina in questa commemorazione della tragedia ciò che è tema della psicoanalisi stessa, l’incontro con l’assenza, col vuoto nell’attraversamento di ciò che scompiglia, ma suggerisce anche, che il lavoro del lutto ci permette in ogni caso di andare oltre e che la vita può continuare nonostante tutto. E se l’orrore non ha immagine, l’arte, la grande arte nella sua lezione primaria nasce da un possibile lavoro intorno a quel reale indicibile, irrappresentabile che ci abita. Ma sempre più l’uomo preferisce nascondere opportunamente tale condizione, per osservare a distanza, per non esserne coinvolto e non accogliere quella verità che potrebbe invece renderlo libero. Se pensiamo alla guerra, c’è chi riesce a vederne solo il fascino, ma Primo Levi quando parla della sua esperienza nei campi di prigionia, del dolore che lo ha attraversato, può solo dire che non ha parole per essere detto, né immagine, né suono, né nome e che lì, il godimento non ha proprio posto.
Serve allora talvolta, nella lacerazione costitutiva della condizione umana, l’esperienza della paura, del rumore più assordante per poterci risvegliare.
Se pur in modi diversi, l’artista e lo psicanalista è colui che sa oltrepassare il recinto protetto della ragione, fino a accedere all’abisso della follia che in qualche modo ci abita, per inoltrarsi in quell’oltre poco rassicurante da cui l’uomo ha sempre cercato di difendersi. E in questo arrischiarsi nella sua discesa verso l‘informe, l’artista incontra unitamente alle macerie del mondo anche le proprie. In questo arrischiarsi, si può cogliere un’etica che, nell’aprirsi alla condizione umana nella sua più ardua assenza di protezione dei nostri fantasmi e razionalizzazioni, può far emergere sensi e significati nuovi, inauditi per il nostro abituale modo di pensare e per la ragione stessa. E’ da un serrato confronto con l’informe, con l’inesprimibile che l’aspirazione alla forma nasce nel lavoro artistico in tutta la sua dignità, quale sola risposta possibile.
Rembrandt nel dipingere se stesso, tenta di rendere visibili quei movimenti dell’anima, mimando senza tregua emozioni e affetti. Nei suoi autoritratti dipinti in ogni età della sua vita, rende visibile tutto ciò che dell’umano gli è possibile, sconfinando i tratti delle passioni del periodo. Nella sua trasformazione in corpo di santo esplorerà il suo, attraversato in modo unico dal godimento. Per Van Gogh i ritratti di Rembrandt sono una rivelazione che tocca i limiti di ciò che dell’invisibile del corpo può essere reso visibile, fino a svanire in un dipingersi come il nulla.Nel suo ultimo straordinario autoritratto cui ha dedicato quattro anni, si riprende in tutta la sua bruttezza e disperazione fino al momento della sua morte, nel guardarsi scomparire nello specchio e non vedere più niente. Nel suo dipingersi emerge una rivelazione del nulla, che pur nella sua ricercasull’impossibile da vedere, è un atto che lo sorpassa, quale unica risposta non decisa dall’io, fino a un punto limite senza ritorno né garanzia, dove il nulla in qualche modo sembra poter essere visto.
Altri pittori si cimentano un questa pittura del vuoto, Rothko sa dipingere il niente, il grande vuoto al centro del suo essere, ognuno però sublima in modo diverso.
Per Lacan la struttura della sublimazione parte proprio dalla mancanza. La mancanza, il punto vuoto è costitutivo dell’opera d’arte, il punto stesso da cui scaturisce, in contrapposizione al tutto pieno degli oggetti del mercato che occludono la via d’accesso o un’apertura possibile all’inconscio. In questo percorso, in questa discesa, la forma artistica può indicarci la via in risalita della sublimazione, nella sua dignità poetica, dove l’arte si rivela all’altezza del suo compito e può trasmetterci, come la psicoanalisi, che nella vita il dolore può non essere l’ultima nota e può essere innalzato alla dignità di un atto di creazione, nel dischiuderci la possibilità di un’altra via.