Renato Bellinello

«Per influenza della psicoanalisi, modificazioni radicali si sono prodotte in questo campo [igiene mentale, n.d.r.]. Freud ci ha insegnato che le nevrosi, nella misura in cui sono “psicogene”, non sono semplicemente la conseguenza di uno “shock” psichico […]; piuttosto, esse sono il risultato finale, espresso in forma di sintomi, di un conflitto psichico interno tra tendenze di segno opposto. […] Per questa via, da un lato la nevrosi diveniva accessibile all’esame introspettivo e alla terapia, dall’altro scompariva la barriera che fino a quel momento si pensava dovesse separare i sani dai nevrotici. Ulteriori progressi della ricerca hanno dimostrato che anche la barriera tra nevrotici e psicotici va abbattuta; infatti, anche gli atti e i processi mentali più strani dei malati di mente derivano da conflitti psichici. Il comportamento del malato di mente cessava così di apparire insensato, i suoi discorsi non erano più un’insalata di parole […]», così scrive Ferenczi ne L’importanza di Freud per il movimento di igiene mentale (1926, p. 364), sottolineando il sovvertimento epistemologico operato dalla psicoanalisi nell’approccio alla malattia mentale, non più elemento avulso rispetto a una supposta normalità. A tal riguardo, di seguito nello stesso scritto (p. 364), il geniale psicoanalista ungherese addirittura rincara la dose: «L’attività psichica la cui analisi ha consentito di superare completamente l’abisso, prima considerato invalicabile, tra malattia e salute mentale è il sogno. Di notte, anche il più normale degli uomini è uno psicotico: ha delle allucinazioni, la sua personalità logica, etica ed estetica è alterata alla radice; quasi sempre, anzi, lo è nel senso di un accresciuto primitivismo». Di fatto, quindi, la psicoanalisi sdogana la malattia mentale, evidenziandone la logica interna, la continuità con la cosiddetta normalità e la possibilità di una cura che vada ben oltre il semplice controllo sociale della devianza.
Lacan ha sempre ben presente l’opera di Ferenczi, di cui riconosce il grande acume nell’analisi dei fenomeni clinici, tant’è che, per esempio, lo cita esplicitamente ne La direzione della cura e i principi del suo potere (1958), dove, non a caso, introduce il concetto di “desiderio dell’analista” come elemento “dissidente” rispetto al doppio registro simbolico-immaginario. Ma è nel Seminario XI (1964) che Lacan parla di desiderio dell’analista come “un desiderio di ottenere la differenza assoluta”, differenza che si presenta, laddove il soggetto è confrontato con il significante primordiale, come un intervallo (divisione del soggetto, impossibilità del rapporto sessuale) rilevabile rispetto alla struttura. Quindi, rimanendo sempre nel solco della dottrina pulsionale di Freud al pari di Melanie Klein, Lacan considera l’oggetto (oggetto a) come incluso nella pulsione e l’analista come parte integrante del dispositivo di cura, di cui si fa oggetto: di conseguenza il desiderio dell’analista diventa l’operatore fondamentale della cura, l’elemento “disturbante la difesa” che divarica il suddetto intervallo, facendo emergere la “dissidenza soggettiva” rispetto alla struttura.
La psicoanalisi, pertanto, non solo fornisce ab initio gli strumenti teorico-clinici per il trattamento dei disturbi mentali, ma porta anche alle estreme conseguenze il discorso scientifico (ex nihilo nihil fit), rilevandone i limiti e portando oltre i confini del “sapere saputo” la cura della soggettività. A questo punto, è lecita una domanda: cosa rimane di questo immenso patrimonio psicoanalitico nella prassi clinica quotidiana della Salute Mentale?
In Italia la legge n. 180 del 13 maggio 1978 (la cosiddetta “Legge Basaglia”), imponendo giustamente la chiusura dei manicomi, intesi come strutture custodiali, e istituendo i servizi di Salute Mentale, di fatto non ha risolto la questione dell’esclusione sociale del paziente psichiatrico. Infatti, i territori di competenza dei suddetti servizi sono diventati dei “manicomi a cielo aperto”, dove lo psichiatra è il deus ex machinaper tutto ciò che attiene al malato di mente (aspetti clinici psichiatrici e di medicina generale, sociali, economici, di vita quotidiana, etc.) nell’ambito di una pretesa continuità assistenziale, in realtà nell’ambito di un processo di “infantilizzazione” del paziente e, quindi, di un chiaro e specifico mandato sociale di controllo della devianza, che il paziente incarna.
In questa cornice istituzionale si trova a operare lo psichiatra e, laddove sia formato e informato alla psicoanalisi, è vittima – usando una metafora – di una sorta di perversa Ichspaltung, di scissione dell’Io in due “correnti psichiche” (Arlecchino servitore di due padroni): l’una è quella del mandato, istituzionale implicito e sociale esplicito, di controllo della devianza sociale; l’altra, all’opposto, è quella della posizione dell’analista, che con il suo desiderio tende a far emergere quella “dissidenza soggettiva” rispetto alla struttura (cioè la devianza sociale che la soggettività umana incarna, soprattutto nell’“inconscio a cielo aperto” della psicosi) e a far sì che il paziente ne faccia un uso tutto suo, creativamente singolare.
Esemplare, a tal proposito, è il caso di Giuseppe, un giovane schizofrenico di 29 anni, che, in un contesto familiare “morto e mortificante”, cerca di essere riconosciuto nella sua singolarità soggettiva – grave nella sintomatologia – e di trovare un “posto” nel luogo dell’Altro. L’Altro istituzionale sembra permetterglielo, ma in realtà non fa nient’altro che riproporre quel processo di “infantilizzazione” del paziente e di controllo della devianza che sono il suo mandato implicito ed esplicito. Lo psichiatra con il suo “desiderio di ottenere la differenza assoluta” cerca di aiutare Giuseppe a trovare un suo “posto”, ma si scontra con la forte ambivalenza e aggressività del contesto familiare, nonché con i limiti, che il suo ruolo istituzionale e il suo mandato sociale gli impongono, e con la farraginosità della macchina burocratica. Alla fine, Giuseppe sembra aver trovato il suo “posto” in una comunità riabilitativa in accordo con i desiderata istituzionali e sociali; tale “posto” non gli assicura, comunque, il riconoscimento della sua “dissidenza soggettiva” da parte dell’Altro familiare e non può far altro che uscire di scena: si lancia dalla finestra.