Nicola Purgato

C’è una storia su Freud che Lacan raccontava spesso. L’avrebbe ricevuta – per sua stessa ammissione – da Jung in persona con cui, a differenza di Freud che non incontrò mai, ebbe una certa familiarità.

“É così che le parole di Freud a Jung, dalla cui bocca le ho ricevute, quando invitati entrambi alla Clark University furono arrivati in vista del porto e della celebre statua che illumina l’universo: «Non sanno cheportiamo loro la peste», gli sono rinviate come sanzione di una Hybris la cui antifrasi e la sua tenebrosità non spengono il fosco bagliore. Perprendere in trappola il suo autore, la Nemesi non ha dovuto far altro che prenderlo in parola. Potremmo temere che ci abbia aggiunto un biglietto di ritorno di prima classe. In verità, se è successa una cosa del genere non abbiamo che da prendercela con noi. Infatti, l’Europa sembra essersi tolta di mente le preoccupazioni, lo stile, se non addirittura la memoria, di coloro che ne sono usciti, con la rimozione dei loro cattivi ricordi.” (J. Lacan, La cosa freudiana. Senso del ritorno a Freud in psicoanalisi, p. 393).

Con la sua celebre espressione Freud sottolinea la dimensione sovversiva del discorso psicoanalitico, ma utilizzando una metafora così forte e particolare (“la peste”) non poteva non alludere anche alla dimensione politica del discorso che aveva creato e che stava portando oltreoceano. Esiste tutta una letteratura sugli effetti socio-politici della peste, ma – per restare nel campo attiguo al nostro – ci bastano i diversi romanzi che la descrivono per darcene una pallida idea. La peste colpisce uno per uno, ma è l’intero sistema che viene scosso e messo in allerta.

Sottolinenando il carattere di antifrasi delle parole di Freud, Lacan ne mette in luce il paradosso: il terapeuta che dovrebbe guarire e donare benessere, porta invece egli stesso la malattia. La dimensione politica della frase non è sfuggita a J.-A. Miller quando, evocando l’aneddoto newyorkese, afferma che “è come se Jung e Freud fossero due terroristi fondamentalisti nascosti negli Stati Uniti.” (J.-A. Miller, The desire of Lacan and his complex relations to Freud, p. 5).

Che il metodo psicanalitico abbia poi davvero introdotto la peste in una cultura capitalista fondata sull’ottimismo, il narcisismo e l’utilitarismo, dando così una radicale scossa a un apparato sociale che pareva indistruttibile è ottimistico pensarlo. Anzi, è da verificare se “il Nuovo Mondo non abbia, invece, portato la peste nella psicanalisi” (cfr. Marina de Carneri, Il desiderio e il consumo) eliminandone proprio la portata sovversiva e riducendola ad una pratica di adattamento nutrita da buoni ideali.

Con l’aneddoto della peste incastonato nel testo La cosa freudiana, Lacan non si limita a constatare il destino delle parole di Freud, ma ci implica direttamente quando saremmo portati a definirla una “questione americana”. Se da un lato, come si sa, rimprovera alla psicologia americana (l’ego-psycologycontro cui si scagliava proprio negli anni cinquanta, cui il testo La cosa freudianaappartiene) di aver respinto “la peste” di Freud, al tempo stesso rimprovera all’Europa di aver rimosso essa stessa sia il lavoro di Freud che “i cattivi ricordi” (la memoria della persecuzione antisemita e della guerra). Utilizzando, inoltre, due termini greci (Nemesi e Hybris) legati alla tragedia greca e all’eroe tragico, Lacan con una amara ironia e una certa solennità, sottolinea che “la peste” che Freud credeva di portare in America viene rispedita in Europa con un biglietto di prima classe, sotto le vesti dell’influente psicologia dell’Io di marca americana e – potremmo dire – di tutte le successive forme di psicoanalisi che sono andate a braccetto con le esigenze sociali.

Per Lacan il fallimento della missione freudiana non lascia quindi l’Europa senza colpa (“se è successa una cosa del genere non abbiamo che da prendercela con noi) non leggendovi solo una “resistenza americana” al batterio Yersinia pestis. Anzi, la palla ritorna a noi e i riferimenti al nazismo e alla guerra su cui già Freud si era interrogato in vari testi, testimoniando il suo costante interesse alle dinamiche sociali, culturali e politiche, sono un invito ad interrogarci anche noi oggi su questi aspetti.

Si tratta quindi di non essere semplici “untori”, uno per uno nel proprio studio, ma come hanno ben mostrato le battaglie in cui J.-A. Miller ci ha coinvolti, di dare voce e tenere ben presente “le preoccupazioni, lo stile, se non addirittura la memoria”, tre parole di cui possiamo dire che mai come oggi ci sia bisogno.

Solo così ciascun analista, mosso dal suo desiderio, e la stessa Scuola Lacaniana potranno avere come “orizzonte la soggettività della nostra epoca” (J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, p. 315) nel doppio senso che la frase lascia intendere: dei soggetti che vivono in quest’epoca e dell’epoca stessa in cui i soggetti vivono. L’interesse per l’una non può andare senza l’altro, così come la clinica senza la politica.

Alla Clark University nel 1909, da sinistra (davanti) Sigmund Freud, G. Stanley Hall, Carl Jung; (dietro): Abraham A. Brill, Ernest Jones e Sandor Ferenczi