Michele Bianchi
La condanna freudiana dell’ipnosi è rimasta inascoltata dal dopoguerra ad oggi, ad eccezione di pochissimi, tra cui J. Lacan. La sottolineatura “edipico”, per il desiderio dell’uomo, risulta decisiva per il ritorno a Freud tentato da Lacan, in quanto Lacan scopre questa necessità in S. Freud direttamente connessa al problema della fine di una psicoanalisi e della formazione di uno psicoanalista, e dunque non tanto connessa al problema epistemologico di un funzionamento naturalistico di una mente, il funzionamento di un soggetto pulsante nel suo habitat vitale o “contesto”. Il problema centrale, per Lacan, è la cura (la fine)e non la vita (l’adattamento), e dunque la posizione dello psicoanalista – il luogo stesso dove lo psicoanalizzante passa a psicoanalista- diventa il problema psicoanalitico centrale. Se il problema centrale di una psicoanalisi diventa la sua fine e non un adattamento, il problema psicoanalitico centrale diventa l’essere stesso dell’analista ovvero la sua posizione rispetto ad un soggetto che reagisce negativamente. Questo ambito di “reattività” è l’unico che davvero interessa allo psicoanalista. La teoria lacaniana del “desiderio dell’analista” si legittima a partire da tale problema. Il soggetto in analisi, l’analizzante, reagisce in modo negativo all’interpretazione non tanto occasionalmente ma di necessità: a questa necessità organica (né meccanica, né mitica)Freud darà il nome di pulsione di morte. Freud stabilirà in seguito una nuova tripartizione dell’apparato psichico (Io, Es, Superio)che nasconde un quarto elemento che nella vecchia tripartizione non riusciva a presentarsi all’interno dello schema psichico (inconscio preconscio coscienza). Si tratta di una zona dell’esperienza che funzionerebbe a partire da un alleggerimento della struttura imperativo-accusatoria dell’identificazione, e che in Über die weibliche Sexualität– e ancora nella nuova serie di lezioni di introduzione alla psicoanalisi- Freud, all’inizio degli anni Trenta, chiamerà Superio debole o indebolito. Ciò non ha più nulla a che vedere con le cosiddette teorie relazioni oggettuali. Questo quarto più segreto elemento del triangolo tragico originario alla luce dell’ultimo e soprattutto dell’ultimissimo insegnamento di Lacan dovrebbe aiutarci a usare correttamente la teoria lacaniana del linguaggio esposta nel 1957 nello scritto sull’istanza della lettera e nel 1958 nello scritto sulla significazione del fallo e in quello sulla direzione della cura, donde la tripartizione tra tattica (clinica dell’interpretazione), strategia (attraverso il transfert)e politica (della formazione e della fine analisi).
Quando diciamo che il soggetto nasce nel campo dell’Altro, assoggettato ad esso, per non far ricadere questa teoria lacaniana dell’alienazione in una delle tante teorie delle relazioni oggettuali tra introietti superegoici, non si deve trascurare il fatto che – a rigore, in Lacan almeno- non si dà mai un momento, nell’esperienza della psicoanalisi, in cui ci sarebbe un soggetto in armonia con il suo stato attuale, con il suo essere cioè nel campo dell’Altro. Più che una passe del soggetto (alienato, relazionato all’Altro)il laboratorio di topologia produce altro: non tanto un passaggio dalla madre (come alienazione primaria o infantile)al padre (come alienazione secondaria o matura), quanto una passe del parlessere che intransitivamente per così dire ribatte su se stesso il soggetto sull’incudine dell’esperienza stessa dell’analisi. Quel martello in verità è un vomere, un vomere affilato che rovescia le zolle che incontra lungo il corso della propria indagine critica. Si valorizza ora questa differenza, tra soggetto e parlessere. Si tratta allora di un attacco, quello di Lacan, alle abitudini più istituzionalizzate d’ogni organizzazione psicoanalitica, anche di quella centrata sulla dottrina pulsionale freudiana riletta da Lacan. Si tratta di una distinzione scomoda per ogni scuola di psicoanalisi, compresa quella lacaniana; una distinzione che si tenderebbe a trascurare. Ciò è dovuto alla circostanza che, mettendo in primo piano l’“esperienza della psicoanalisi”, e nonla psicoanalisi considerata per dir così staccata dalla sua esperienza (e indipendentemente dalla sua messa alla prova), la distinzione mette in crisi senza mezze misure il presunto primato della clinica (una clinica pura, che sarebbe sganciata da una politica interna alla scuola di analisti). Ciò può apparire come un reato di lesa maestà. In genere, chi valorizza il primato della clinica, lo fa contro la teoria, quando per clinica si intende una “pratica” alla fine staccata o contrapposta alla “teoria”. Si potrebbe forse sostenere che il controtransfert non riposa in altro se non in questa inconscia contrarietà (ed è dunque una questione di politica interna). Pensare una teoria della fine analisi come passe del parlessere significa pensare la teoria stessa come esperienza psicoanalitica. Cosa si deve intendere qui per esperienza psicoanalitica? Ebbene, deve essere inteso qualcosa come un’esperienza teoricaa cui è stata tolta ogni preoccupazione circa il distacco dalla concreta realtà materiale. Si tratta, a tutta prima, di un paradosso. Il paradosso di un’esperienza fatta solo di passaggi ineffettuali. Esperienza “teorica”, obiettivolo chiama più esattamente Lacan nell’Atto di fondazione: «obiettivo di lavoro»; ma già nel Seminario VIII, quando sul terreno del Simposioplatonico aveva parlato di «theoria», Lacan stava cominciando a togliere enfasi al momento clinico – sempre troppo “psichiatrico”– a favore dell’esperienza (quell’esperienza di soglia rispetto al momento deontologico-professionistico, del tutto allargata come aveva già osservato Freud nel 1926 nel Problemadell’analisicondotta da non medici). Siamo abissalmente distanti da quella dimensione del pensiero, della teoria, dove pensiero e teoria si pensano come desiderio, come povertà. E ancora: come indigenza, mancanza, amore della verità ecc. Quando Lacan parla del vomere affilato della veritàsi è già spinto – o si sta spingendo– oltre l’idea che la verità debba essere raggiunta con uno sforzo, con un lavoro. E così, questo lavoro sui generisdi Lacan che è il suo ultimissimo insegnamento come lo chiama J.-A. Miller, non è più il lavoro normale dell’amore di insegnare, di psicoanalizzare, di medicare, ma l’amore per un lavoro critico puro.
Pensare una teoria della fine analisi come passe del parlessere significa pensare la teoria non come possibilità o potenza (vocazione realizzatrice)ma come esperienza di un’attualità piena che, senza il pungolo dell’angoscia, si dischiude spontaneamente da sé (in modo cioè autosufficiente)all’amore del reale. Questo amore, ipso facto, comporta la sua testimonianza, e una coralità che giustifica la scuola. Il reale si ama non perché è realizzazione conquistata dopo uno sforzo, dopo una chiamata, dopo una vocazione realizzatrice. Si tratta così di arrivare a criticare fino in fondo ogni teoria ingenua dell’alienazione, ogni cripto-junghismo che informa la teoria di turno in materia di scissione e di introiezione proiettiva. La mancata critica di ogni teoria ingenua dell’alienazione comporta un ritorno ideologico all’interno della scuola di psicoanalisi che impedisce lo svolgersi di quel lavoro – non lavoro di transfert ma tranfert di lavoro–
«che nel campo aperto da Freud restauri il vomere affilato della verità – che riconduca la prassi originale da lui istituita con il nome di psicoanalisi a quel che al mondo le spetta – che con una critica assidua vi denunci le deviazioni e i compromessi che smorzano il suo progresso degradando il suo impiego».[1]
Questo obiettivo di lavoro è un luogo e un dovere, cioè una topologia e un’etica: dove devesvolgersi un lavoro speciale scrive Lacan. Etica e topologia indissociabili da una formazione che, in questo movimento di riconquista, deve essere impartita. Questo obiettivo di lavoro è uno scopo finale sui generis, sui generis poiché non coincide con una teleologia soggettivistica. Questo obiettivo di lavoro non è una osservazione su come dovrebbe essere fatto un lavoro di scuola per riuscire bene nel campo degli stati di fatto. Se così fosse, si finirebbe per alimentare il fantasma animico della relazione intersoggettiva. L’ultimissimo insegnamento di Lacan spinge alle estreme conseguenze le acquisizioni della prima parte degli anni Settanta, quando in Radiofonia. Televisione. Un itinerario di ricercae nei tre seminari dal 18° al 20° sviluppa che il luogo dell’esperienza psicoanalitica dove si tratta il reale del godimento non è l’oggetto ma è il corpo, ovvero che il corpo è il luogo dell’Altro: non l’oggetto, non la rappresentazione e nemmeno il suo limite, nemmeno la sua mancanza. Il desiderio dell’analista legittima così una clinica che non potrebbe essere sganciata da una politica interna alla scuola di analisti.
[1] J. Lacan,Atto di fondazione, in Altri scritti, Einaudi, Torino, 2005, p. 229.