Leonardo Mendolicchio
Una giovane collega in specializzazione in psichiatria mi porge la sua domanda di analisi.
Inizia la messa in parola, si struttura il transfert.
La domanda di analisi era sorretta da un doppio aspetto, uno meno velato: ovvero che tipo di psichiatra diventerò? L’altro, più legato al sintomo, riguarda il rapporto con l’Altro e l’amore. Qualche giorno prima passaggio fondamentale della sua vita fa un sogno.
Sogna di essere una città devastata dalla guerra, lei è con suo padre, scappano, intorno a loro ci sono dei minacciosi zombie. Entrambi hanno una pistola in mano. Decidono di darsi la morte prima di essere uccisi.
Vi è un altro sogno, alcuni giorni prima del nostro primo incontro. La giovane collega sogna di essere dall’analista con la madre. Entrambe siedono difronte a lui, l’analista porge la parola alla madre, l’analizzante si agita e si innervosisce.
Nel corso del trattamento il discorso precipita sull’enigma della domanda. Cosa vorrà mai l’Altro da me. L’analista orienta il discorso sulla scelta della sua professione:
Difronte all’enigma della domanda del folle, lei come si pone?
La risposta fu: la psichiatria mi insegna una tecnica e così mi sento più sicura.
Il pensiero di Basaglia fu proprio al contrario un tentativo di umanizzazione dell’appartato clinico della psichiatria, partendo dalla fenomenologia, lo scopo, infatti, era integrare l’esperienza della follia nel discorso sociale.
Utopico? Senz’altro si, e dati alla mano senza successo.
Guardiamo cosa è la psichiatria oggi. Un disciplina sospesa tra l’esasperazione della tecnica e una pratica clinica fatta da un esercito di operatori esasperati e sofferenti. Altro che integrazione, la malattia mentale sta scomparendo dall’orizzonte della psichiatria ancor prima di essere riassorbita dal cosiddetto “tessuto sociale”. Basaglia aveva fatto della sua “rivoluzione” una forma di militanza sul territorio, una clinica che sulla spinta dell’epoché, trascendeva la psicopatologia per puntare all’individuo superando lo spirito segregativo borghese.
Il desiderio dello psichiatra, ereditando la tradizione clinica post Basagliana, nella migliore delle ipotesi è spesso un desiderio che si basa sulla ricerca del senso, basato su un architrave fenomenologico appunto. Poi arriva il momento in cui si sbatte il muso contro il “reale” e il senso non basta più. Lacan, lo psichiatra, sosteneva che il mammifero umano aveva fatto della “merda” una questione ontologica, e sapeva che la psichiatria e la psicoanalisi dovevano occuparsi di questo aspetto, ovvero dello “scarto” dell’umano, non del senso della vita. “L’uomo si caratterizza nella natura per lo straordinario imbarazzo che gli procura l’evacuazione della merda”, afferma Lacan (1)
Ecco che per non morire il desiderio dello psichiatra si trasmuta grazie all’incontro con la psicoanalisi in un desiderio Altro.
L’enigma della domanda, appunto.
La psichiatria, così come tanti aspetti del sociale, ha subito in questi anni il passaggio dal discorso del padrone a quello del capitalista, non un orientamento sul reale, ma bensì una ricerca spasmodica di saturazione da parte della tecnica della cura.
Da psichiatra psicoanalista mi si palesa un quesito apparentemente banale: come si può articolare l’enigma della domanda alla prassi della cura?
Lo psichiatra psicoanalista differisce nella prassi dallo psichiatra?
Desiderio di controllo, di sapere, di tecnica, un armamentario teso contro la possibilità di sostenere l’olezzo dell’enigma della domanda. Ecco forse è questa l’unica rivoluzione possibile, soggettiva e singolare per ogni psichiatra psicoanalista, saper dare la parola nel modo giusto, non alle figure identificatorie ove il soggetto si nasconde, salvandolo dalla condanna a morte che queste costituiscono.
J. Lacan, Il mio insegnamento, la natura e i suoi fini. Ed Astrolabio, 2014; pag.56