Roberto Cavasola

Un tempo chi si rivolgeva ad uno psicoanalista aveva più o meno un’idea della psicoanalisi, o quanto meno si chiedeva cosa fosse quella cosa un po’ misteriosa. Ormai molte persone chiedono una psicoterapia ed eventualmente sono persino delusi di trovare uno psicoanalista. Gli psicoanalisti di altre scuole, o almeno alcuni di loro, possono non fare più una distinzione precisa tra le due. Miller diceva scherzosamente nel corso Le lieu et le lien: è come se gli psicoanalisti si sentissero “le vittime di un furto, il furto del loro strumento di lavoro, la parola”[1]. In quello stesso corso, a partire dagli interventi di François Leguil e di Eric Laurent, Miller notava come è stata data la preferenza al dolore e alla depressione rispetto all’angoscia. L’angoscia è un affetto metafisico, che interroga l’essere, la depressione è una sofferenza che necessita di essere alleviata[2]. L’idea è che in fondo basta avere qualcuno con cui parlare, senza nemmeno avere bisogno di una risposta, per sentirsi un po’ meglio. Il principio debriefing che viene fatto per prevenire il disturbo postraumatico da stress sarebbe questo: parlarne subito, appena possibile, a psicologi mandati appositamente sul luogo del disastro. Leggiamo sul giornale: “gli psicologi sono stati mandati immediatamente”, insieme alla polizia e ai vigili del fuoco. Una sorta di decontaminazione fatta parlando. Che cosa nasconde questa fiducia nella parola e nell’ascolto?
La posizione di una giovane donna che ha perso la madre in modo prematuro chiarisce meglio che cosa la parola comporta, oggi: è venuta da me solo una volta consigliata da un amico, per dirmi che lei sa di non stare bene ma non se la sente di parlare, perché parlare vorrebbe dire parlare della madre, ed è una cosa che non si sente assolutamente di fare, è troppo doloroso parlarne. Forse è il rifiuto di introdurre un senso che potrebbe in qualche modo intaccare quel posto lasciato vuoto, o quel ricordo. Lei sa che avrebbe bisogno di una terapia ma non la vuole, anche perché parlare di sé vorrebbe dire parlare della madre. In un’epoca in cui tutto viene terapeutizzato è una posizione che merita attenzione e rispetto, lei non vuole che il lutto della madre venga terapeutizzato. L’uso che viene fatto della parola suscita diffidenza, perché l’orizzonte del “basta parlarne” comporta una banalizzazzione.
Se per un verso la parola come terapeutica può essere rifiutata, per un altro verso si esige che lo sia, i pazienti ci chiedono direttamente di spiegare loro le virtù di questa medicina e come si usa.
Se però si cerca il sintomo al di là del lamento, si delineano subito delle coordinate simboliche al di là del senso. Occorre informarsi e poi informare il paziente sul suo sintomo, di cui spesso non parla. Non di rado i pazienti parlano di certi sintomi, al plurale, soltanto dopo un certo tempo. A volte hanno fatto precedenti psicoterapie nelle quali non ne hanno mai parlato. Éanche il segno di una decadenza della clinica, che ha come conseguenza di dare un valore solo a ciò di cui il paziente si lamenta. A volte i pazienti scelgono di proposito di non parlare di qualcosa, come una paziente di cui ho scoperto solo dopo un certo tempo che aveva un rapporto di coppia, di cui non aveva parlato “perché non lo considerava un problema”. Mi aveva tratto in inganno, parlandomi dettagliatamente di precedenti rapporti. Come potevo immaginare, se si dilungava su precedenti rapporti, che mi stava letteralmente nascondendo il rapporto attuale?
Ecco una prima declinazione del desiderio dell’analista: di cosa deve parlare il paziente? Questa domanda non va da sé. Ripristiniamo immediatamente un certo valore della parola se consideriamo il “potere dell’uditore”[3]a cui il lamento non basta. Invitare il paziente a delineare il sintomo, o i sintomi, ad esempio l’inibizione o il sentimento d’impotenza, e al di là come questi si generano, lo introdurrà a qualcosa di inaspettato per lui. Se Lacan nel suo ultimo insegnamento ha parlato di sinthomo, vuol anche dire che esso può essere tanto famigliare quanto difficile da declinare. Le altre psicoterapie non vedono nemmeno bene i contorni precisi del sintomo o lo riducono in uno stampo preformato che crea un’immagine troppo sfuocata e rende così inservibile qualcosa che invece, se preso per il verso giusto, introduce proprio al rapporto tra immaginario, simbolico, e reale. Parlare del sintomo significa anche far emergere quel suo lato enigmatico che rinvia alla causa. L’interrogativo sulla causa del sintomo per Lacan è il punto in cui si entra nella psicoanalisi[4].

[1]Miller J-A., Le lieu et le lien, 13/12/2000.
[2]Miller J-A., Laurent E., Leguil F., Le lieu et le lien, 14 e 21/03/2001.
[3]Lacan J.,Varianti della cura tipo, Scritti, Vol.I
[4]Lacan J., Il Seminario, Libro X,L’angoscia.