Fulvio Sorge

Non sono molti gli artisti contemporanei in grado di descrivere ciò che li muove all’opera e ragionare lucidamente su quanto li ispira. Tra essi Anselm Kiefer che esprime una visione del fare arte che è ineguagliabile. Egli, nato nel 1945 e cresciuto tra le macerie della guerra, tentò provocatoriamente di rompere il silenzio sui crimini di quel passato prossimo che ha lungamente pesato sulla crescita spirituale del popolo tedesco, dedicando la sua opera a Paul Celan e a Ingeborg Bachman.
Ascoltiamolo. “ Dirò subito che non esiste una definizione di arte , ogni definizione si sgretola non appena viene in contatto con il suo enunciato. L’arte non è mai dove ci aspettiamo, dove speriamo di coglierla “[1] E ancora “ Soltanto nell’arte ho fede, senza di essa sono perduto. Soltanto le poesie hanno una realtà. Come avrete capito non riesco a vivere senza poesie e senza quadri non solo perché non so fare nient’altro ma per ragioni quasi ontologiche…Tutto il resto non è che pura illusione, voi che mi ascoltate, ad esempio, non sono sicuro che siate reali.” E infine egli sostiene che sull’arte nessun discorso è possibile ma questo vuoto, di cui l’artista si avvede solo al termine della propria opera, è quanto sostiene e informa il suo desiderio.
Non dissimilmente dal pensiero di Lacan sulla posizione dell’analista l’artista ha a che fare ogni volta con un desiderio prossimo alla sua estenuazione, vuoto.
La funzione del bello, barriera più prossima alla Cosa, è di provare a dire qualcosa del reale crudo della vita, ma anche e soprattutto di renderlo sopportabile, appunto bello; un’operazione paradossale per cui il valore del bello scaturirebbe proprio da quella atrocità da esso velata. “E’ evidentemente per il fatto che il vero non è tanto grazioso da vedere, che il bello ne è, se non lo splendore, perlomeno la copertura” [2]
Si può considerare l’atto analitico come apparentato a quanto Kiefer sostiene nella visione della sua opera? Forse, se l’opera d’arte rappresenta un impossibile a dirsi, prossimo all’esautorazione del suo autore, è un atto non garantito che riempie provvisoriamente un vuoto così come il discorso dell’analista ha per soggetto un oggetto scarto, segnato da un’esistenza contingente ed effimera, in cui l’analista fa sembiante di erranza tra i discorsi, si presta nel transfert alla parvenza di agalma, si sottrae là dove si cerca un padrone, al fine di mettere in evidenza la fatuità di ogni discorso a fronte dell’impossibile. Egli si misura con la produzione che lo causa, si declina come sapere senza soggetto e, nel suo atto, “ si fa produrre; con l’oggetto a: per mezzo dell’oggetto a” [3]
Se l’artista nulla può dire del farsi della sua opera, il discorso dell’analista è l’unico dei quattro che lavora attivamente alla sua distruzione.La creazione in questo senso è sempre ex nihilo. Tale è la prospettiva creazionista lacaniana: uno dei nomi del reale è il nulla, il nulla cosmico, da cui solo può emergere l’atto creativo, che si produce come tessitura intorno a questo impossibile.
Non dissimilmente i fili di un’analisi si intrecciano intorno alla pretesa di risarcimento dell’analizzante, a fronte dell’azione letale del significante, richiesta che l’oggetto a, incarnato dall’analista, sostiene. Jacques Lacan precisa, a proposito del fatto che anche afunziona da esca, da sembiante, ciò riguarda per sua natura una dupèrie dell’analista, “Noi non crediamo all’oggetto, ma constatiamo il desiderio e, dalla constatazione del desiderio induciamo la causa come oggettivata.“ [4]
Spencolato sul Maelstrom dell’orrore cui il proprio sapere lo conduce, sostenendosi al bordo del reale con la pertinenza del nulla che ha toccato, l’analista incontra il litorale. “Tra centro e assenza, tra sapere e godimento, c’è litorale che vira al letterale solo a condizione che questo viraggio possiate intraprenderlo a ogni istante allo stesso modo. Solo così potrete ritenervi l’agente che lo sostiene” [5]
Dal silenzio dell’arte all’arte del silenzio.

[1] Gregorio Botta. La lezione di Kiefer. “ L’arte vive nelle rovine “. Intervista tratta da “La Repubblica” Venerdì 1 Giugno 2018, pp. 38,39
[2] J. Lacan “Il Seminario.” Libro VII, “ L’etica della psicoanalisi “Einaudi Ed., Torino,1994,p. 291.
[3] J. Lacan, «L’atto psicoanalitico», in “Altri scritti “, Einaudi Ed., Torino, 2013, p.373
[4] Jacques Lacan, Il Seminario. Libro XXXIII Il Sinthomo 1975-1976, Astrolabio Ed. 2006; p. 35
[5] J.Lacan, Lituraterra, Altri scritti, Einaudi Ed., Torino, 2013, p. 15.