Alide Tassinari
Non c’è omosemia tra il solo e solo.
La mia solitudine è precisamente a ciò a cui ho rinunciato nel fondare la Scuola, e che cosa mai ha a che vedere con la solitudine con cui si sostiene l’atto analitico a parte il fatto di poter disporre della sua relazione con questo atto? [1]
Al desiderio Lacan ha dedicato un seminario intero[2]. Nel linguaggio comune il termine è usato frequentemente come sinonimo di volontà, anche se non si può dire facilmente cosa sia e neppure come opera. Tra desiderio e sapere, qualcosa manca e l’articolazione va costruita nell’ambito di una esperienza analitica. Esperienza che si fa in due. Dal lato analista l’esperienza implica l’essersi assunto il desiderio come vuoto, come mancanza d’oggetto; dal lato analizzante il soggetto si rivolge all’Altro perché cerca l’oggetto non volendo sapere nulla sul suo desiderio inconscio. La non risposta dell’analista porta l’analizzante a sovvertire la domanda e a chiedersi quale desiderio lo divide e, in che modo, la ripetizione pulsionale che vi è implicata, domanda del nuovo. Un nuovo sapere, un nuovo amore del sapere svincolato da ogni soggettività. Ecco un passaggio possibile della fine analisi.
Il desiderio dell’analista infatti non implica la soggettività dell’analista, contraddicendo ogni dissertazione teorica psi – sempre immaginaria – sul controtransfert. La questione, fuori da ogni suggestione contemporanea, è che il desiderio dell’analista si installa tramite il vuoto di una soggettività depurata da ogni passione dell’essere. Là dove era il luogo soggettivo delle passioni, il vuoto instaurato fa dell’analista strumento per l’analizzante e, nello stesso tempo, quel vuoto permette all’analista l’atto. Atto che suscita orrore … per questo ci vuole coraggio e nessuna prestanza. Lo psicoanalista, col suo atto, si fa supporto dell’analizzante nel volerne sapere e ne sostiene la ricerca con la sua presenza. La presenza “dà corpo” al sembiante d’oggetto causa di desiderio. L’oggetto causa, perno dell’atto analitico, attesta che l’analista non opera nella cura, in quanto soggetto, ma solo tramite il desiderio. Questo desiderio riscontrabile nel passaggio da analizzante a analista, Lacan, lo ha qualificato come deciso, non puro, inedito e Jacques-Alain Miller come desiderio di raggiungere il reale, la differenza assoluta. Queste attribuzioni, altrimenti accolte solo come enunciati, sono esperite dall’analizzante durante la sua cura. Lo psicoanalista, nella sua esperienza di analizzante, l’analizzante che lui stesso è, ha intrapreso un percorso iniziato con la credenza – la credenza ha a che fare con l’amore, prima e ineludibile risorsa del transfert – che ci fosse un Altro, al quale ha supposto un sapere e poi, nel corso della cura lo ha lasciato cadere, impegnandosi decisamente fino a “toccare” il bordo del reale che lo concerne. Il desiderio dell’analista, nome della funzione intrinseca nella cura, diventa un fine dell’analisi legata alla formazione dell’analista e alla Scuola, come il dispositivo della passetestimonia.
Tutta l’esperienza analitica è un andare da un pieno a un vuoto. Solo una soggettività vuota, libera da ogni pregiudizio, opera infatti nella conduzione della cura nell’orizzonte particolare dell’epoca nella quale si pratica. La conduzione di una cura, seguendo l’orientamento lacaniano di JAM, pur servendosi dello stesso operatore, non è mai la stessa e non è più la stessa dei tempi di Freud. L’orizzonte cambia: là dove freudianamente c’era un rimosso emerso alla luce, dopo un lavoro di scavo e di investigazione, nella contemporaneità la leva su cui spingere è data dall’allusione, dalla risonanza creata dalla parola, dal gusto del non senso che rimanda alla consistenza propria del corpo: luogo di un godimento che si ha, che si prova, che disturba, in eccesso o in difetto.
La paradossale constatazione è che non c’è volontà nel campo psicoanalitico, né padronanza, ma solo il desiderio inconscio o la sua mancanza.
Infatti l’analista è situabile «con ciò che in passato veniva chiamato santo […] Un santo, per farmi comprendere, non fa la carità. Piuttosto si mette a fare lo scarto» non è quindi come ideale ma come mancante di ogni identificazione, come scarto che può «realizzare ciò che la struttura impone, e cioè permettere al soggetto, al soggetto dell’inconscio, di prenderlo come causa del suo desiderio»[3], nel luogo dell’impossibile e della solitudine. In psicoanalisi nessun ecunemismo, nessuna tensione verso la santità, dal momento che la si “raggiunge” solo un momento, rinunciandovi, e subito dopo c’è lo scarto e ciò che è inassimilabile alla parola e alla sublimazione, rimane lì come resto, a testimoniarlo. La passe, le passe testimoniano di una costruzione del proprio caso, tramite la tessitura, via godimento, della logica del significante, della lettera e del resto. Lacan ha voluto che la nomina a AE sia una nominazione “limitata” – in un tempo cronologico – e al di là da ogni concezione dell’essere, collegandola strettamente alla formazione analitica. Potremmo dire che, al contrario di Freud per Lacan l’analisi ha una fine e questa si allaccia strettamente alla formazione (quella si infinita) dell’analista.
Il desiderio inconscio – è a questo livello che continua a operare la psicoanalisi – il Wunschfreudiano è ancora oggi indistruttibile ma non facile e agevole da conoscere, perché il parlesserenon ne vuole sapere, così come ai tempi di Freud e, nella stessa misura, permane la difficoltà di assumersi la responsabilità del proprio desiderio che si esprime nelle vicissitudini sintomatiche di cui l’analizzante soffre e dalle quali chiede di essere liberato: non sa che la sofferenza vela il buon motivo che lo aveva spinto a domandare. “Soggettivarsi” non può avvenire senza l’esperienza analitica, un’esperienza solitaria che si fa in due: analista e analizzante.
È questa duplice accezione della solitudine che fa Scuola e non agglutina in una linea di partito preso; di questo la politica, quella della polis, se vorrà potrà tenerne conto e servirsene per un legame fondato su una causa e non sull’identificazione.
[1]J. Lacan, Discorso all’École Freudienne de Paris [1967, 1970] in Altri Scritti, a cura di A. Di Ciaccia, Torino, Einaudi, 2013, p. 259.
[2]Ibidem, Il Seminario, Libro VI, Il desiderio e la sua interpretazione [1954-1955], a cura di A. Di Ciaccia, Torino, Einaudi, 2016.
[3]Ibidem, Televisione[1973], in Scritti, op. cit., p. 515.