Maurizio Montanari
La psicoanalisi deve stare lontana dal potere. Sia esso politico, economico, o la fusione dei due. Se si avvicina ad esso, diventa altro.
Deve resistere al desiderio di indossare casacche politicamente colorate, offrendo la sua strumentazione al servizio di questa o quella fazione. Alla facile strada che porta ad accasarsi presso avanguardie benpensanti e piene di verità, deve preferire la via che porta verso il vuoto, laddove qualcosa manca. La psicoanalisi deve cioè camminare tra gli scarti del potere.
Come uomini possiamo andare ovunque. Entrare in qualsiasi consesso liberamente. Come analisti sappiamo che esistono stanze che ci impongo di lasciare il soprabito fuori dalla porta. La questione dell’‘opacità dell’analista è quel punto fondante che permette all’analista di restare tale, occupando quella posizione, indipendentemente dal mutare dei capricci del potere che, come Pasolini ci ha insegnato, fa quello che gli pare obbedendo ad una personale anarchia, imponendo, come il padre di Kafka, rigide regole che tutti, tranne lui, devono seguire.
Piu’ che leggere il messale del padrone, l’analista deve saper incarnare il motto Oportet ut veniant scandala, creando eresia laddove il potere infonde verità assolute. Laicamente lo psicoanalista deve aprire la porta ed accogliere tutto ciò che è dissonante, incomprensibile, fuori regola, eccentrico rispetto all’ordine pubblico. La psicoanalisi deve preservare quell’elemento di sorpresa che la distingue da un processo di normalizzazione caro al potere. Il potere non vuole che servi. E’, per sua stessa natura, paranoico, e non tollera le voci dissenzienti perché è forcluso. E la sua forclusione è direttamente proporzionale alla forza muscolare che mette in campo per zittire le voci dissonanti. Quelle voci che un analista deve sapere raccogliere, affinando le orecchie, modulando il suo udito su suoni oggi sempre meno udibili, in tempi di verità diffuse.