Sergio Caretto

A tre anni di distanza dall’Atto di fondazione [1] con cui prende avvio la Scuola, Lacan propone l’esperienza della passe al fine di vegliare e tenere vivo quel “…reale in gioco proprio nella formazione dello psicoanalista. Noi sosteniamo che le Società esistenti si fondano su questo reale. […] non meno palese – e per noi concepibile – è il fatto che quel reale provoca il proprio misconoscimento e arriva a produrre la propria negazione sistematica”.[2] Il fatto che lo psicoanalista abbia chiaro e concepisca la negazione sistematica del reale da cui sgorga la sua formazione, non lo mette per niente al riparo da tale misconoscimento. Al contrario, sappiamo che è proprio dallo psicoanalista e dal gruppo di cui fa parte, che tale misconoscimento del reale può arrivare, a detrimento del discorso psicoanalitico che, in un men che non si dica, si richiude sugli altri discorsi. Sì perché non c’è alcun vaccino rispetto al reale e, la psicoanalisi, per essere all’altezza del compito a cui è chiamata, occorre sia più prossima alla peste che, a buon diritto, suscita nel sociale le resistenze più tenaci. Annacquare il buon vino della psicoanalisi, secondo un’espressione pronunciata a Milano da C. Viganò che di vino se ne intendeva, con l’intento di addolcirla e di superare le resistenze che si oppongono alla stessa, non è che uno dei modi di misconoscere il reale su cui si fonda, riducendo il discorso psicoanalitico ad una veltanschaungad uso e consumo. E’ accaduto con Freud, accade con Lacan, e Lacan stesso al termine della sua vita e del suo insegnamento ne era ben avvertito: “Voi stessi penserete solo a cancellare le tracce del mio discorso poiché sono io ad avere incominciato a dare uno statuto al discorso analitico partendo dal fare sembiante dell’oggetto piccolo a”. [3]
Con la passe Lacan pone l’impossibile al cuore della Scuola, inoculando nella Scuola ciò che è più prossimo alla peste, una peste dai tratti singolari, intrasmissibile a tutti, ma che può propagarsi in maniera imprevista e con effetti singolari su ciascuno, effetti che si riverberano dal dire al di là dei detti. E’ pertanto dal dire, dall’enunciazione, che dell’analista si può intendere al di là di ogni comprensione e non senza effetti di didattica. Una didattica, effetto di ciò che del reale riverbera nel dire, didattica che può solo rivelarsi e scriversi a posteriori quale esito di un’analisi portata a termine, piuttosto che imporsi a priori quale vaccino contro la psicoanalisi stessa. Insomma è davvero una bella rottura questo discorso psicoanalitico, tanto più nel passaggio da psicoanalizzante a psicoanalista in cui venendo meno la “garanzia” del fantasma a causa della caduta di a, si spalanca l’abisso da cui un desiderio inedito può sorgere: il desiderio dell’analista.
Per la prima volta, da un Convegno della Scuola, mi attendo che sia una “bella rottura”, all’altezza del desiderio dell’analista.

[1] J. Lacan, Atto di fondazione, in Altri Scritti, Einaudi, Torino 2013.
[2] J. Lacan, Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della Scuola, in Altri Scritti, Einaudi, Torino 2013, p. 242.
[3] J. Lacan, Il Seminario Libro XXIII, Il Sinthomo, Astrolabio, Roma 2006, p. 120.