Céline Menghi

Fare vergogna è un sentimento provato raramente, dice Lacan agli studenti di Vincennes che nel 1968 pensavano di fare la rivoluzione. Troveranno un altro padrone nel momento stesso in cui credono di buttarlo giù senza rendersi conto che il padrone è lì a guardarli oscenamente. Questo il punto di partenza di Lacan sulla vergogna, sentimento capitale per la psicoanalisi (Sem. XVII, Einaudi 2001).

Abbiamo tutti un padrone, uno Stalin, si tratta dello Stalin del linguaggio. Gli effetti di questa sudditanza sull’essere parlante sono effetti di resto, di godimento: un godimento che travalica il linguaggio.

Fare vergogna vuole dire per un soggetto separarsi dal significante padrone per scorgere il godimento che ne trae. Dove la colpa, chiamando in causa il perdono, libera dalla responsabilità soggettiva, la vergogna, fa luce sul godimento più intimo e singolare dell’essere parlante, un godimento con cui ha da confrontarsi anziché chiudere gli occhi lasciandolo nel grembo mortifero dell’ignoranza. Una faccenda di etica che oggi più che mai ci riguarda.

Nel Seminario Ancora (Einaudi, 2011), Lacan pone come paradigma di questo godimento il godimento femminile, altro, fuori dall’universale fallico. Una donna, con il suo godimento non-tutto fallico, incarna per un uomo, e ancor prima per se stessa, l’Alterità assoluta. Può essere madre, ma, nella maternità, esserci o non esserci non-tutta. Solo in quanto non-tutta è in posizione femminile. Talvolta, poiché tale posizione è precaria, sempre da reinventare non essendoci una legge universale che la regoli, come invece accade per la virilità. Uomo e donna si differenziano per il rapporto inconscio che intrattengono con il godimento e ciascuno può scegliere se stare tutta/tutto o non-tutta/non-tutto preso nel godimento universale/fallico. Lacan dirà che può esserci una donna color di uomo e un uomo color di donna (Sem. XXIII, Astrolabio 2006, p. 112).

Lacan ha cercato presso i mistici, che hanno praticato ed esplorato l‘altrove a cui la posizione femminile si avvicina, e consigliava agli uomini di avventurarsi in questa zona, ne avrebbero tratto un più di libertà dalle imposizioni del discorso totalizzante – che sia quello di uno Stato o quello di una Chiesa.

L’uomo può essere attratto da questo altrove, al punto di innamorarsi di quella donna che per lui lo incarna e si fa causa del suo desiderio, ma, proprio per questo, a rischio poi di correre a rifugiarsi nella virilità misurabile, contabile e sicura – solitudine masturbatoria, che Lacan chiama godimento dell’idiota; Sacralità della famiglia incarnata dalla donna-tutta-Madre; sposa-bambina, soluzionI del tutto fallico. Conosciamo bene il concorso di Stato e Chiesa, o di quelle religioni fobiche nei confronti del femminile, nel provocare conseguenze deleterie per le donne.

Veniamo all’intreccio pudore vergogna, dal lato donna.

Il rifiuto della femminilità nel rapporto uomo donna, dal lato uomo, quando egli rifugge l‘Alterità e si rifugia, lascia una ferita aperta, dal lato donna. Da questa ferita aperta insorge dolorosamente uno strano e inatteso pudore, tanto più strano e inatteso quanto più una donna si è data nella vicenda amorosa, condivisa, senza colpa.

Ciò pone una questione nella clinica: se questo strano pudore vela, in après-coup, come una foglia di fico la vergogna mai provata nella relazione, di che vergogna si tratta per una donna? Nella vicenda amorosa la donna si dà, si dà, per nulla metaforicamente, come ferita, dove ferita è sostantivo, non participio passato; si dà come corpo spalancato, recipiente, mancante. L’Alterità che incarna per un uomo e che sempre la lascia, per se stessa, su un bordo incerto quanto più il godimento che la concerne, sessuale e non, è fuori misura fallica, altro, puro evento di corpo, questa Alterità, nella contingenza dell‘amore che la parola veicola, è, se non proprio regolata, quanto meno smussata dalla parola stessa, la parola data.

Un’ipotesi: il pudore che vela la vergogna avrebbe a che fare con l’essere lasciata, di una donna, in balia di un Altro che di questa Alterità si fa gioco, un Altro, padrone, al servizio del quale l’uomo stesso va o torna a porsi come vittima sacrificale di questo Altro che anche di lui si fa gioco. Ricordiamoci, e ce lo ricorda Lacan nel Seminario Le formazioni dell’inconscio riprendendo Freud, il comandamento cristiano dell’amore per il prossimo: ama il prossimo tuo come te stesso. Lacan prolunga la frase e aggiunge come te stesso tu sei, a livello della parola, quello che tu odî nella domanda di morte, poiché tu lo ignori (p. 520).

L‘Altro in questione è l‘Altro della domanda di morte che conduce alla morte della domanda. È la domanda dell’ossessivo, che odia ciò che egli stesso è poiché lo ignora – non ne vuole sapere. Ma ciò di cui non vuole sapere è il godimento fuori fallo che lo concerne e che ha intravisto nell‘incontro con quella Alterità incarnata per lui da una donna.

Allora, una donna sarebbe forse confrontata a questo? È su questo che una donna getta il velo del pudore? Lo getta, questa è la mia ipotesi, sulla vergogna generata dall‘essere stata scambiata: dal oggetto causa a riduzione a Cosa che cade sotto la passione dell’ignoranza. Scambiata: dall‘Alterità a puro silenzio di oggetto, uccisa nella sua differenza viva. Qui, sulla soglia di questo strano pudore, si innesta la devastazione. Da qui, alla donna di togliersi per difendere la posizione femminile e strapparsi da una vergogna che non è dell‘Alterità bensì dell‘Altro dell‘ignoranza e della sua passione di morte.

All‘uomo, invece? Provare un po’ di sana vergogna e assumere la causa – reale – del proprio desiderio.