Paola Bolgiani
Da molto tempo, gli psicoanalisti e coloro che si formano nella psicoanalisi sono attivi in molte istituzioni, di diverso tipo. Come operatori a vario titolo in istituzioni sociali pubbliche o private, accompagnati dalla loro formazione, come direttori di istituzioni, come fondatori di nuove forme istituzionali orientate dal discorso analitico. In Italia abbiamo una varietà e una ricchezza di esperienze rimarcabile, che costituisce un patrimonio di inestimabile valore. Tuttavia, questo patrimonio, perché sia effettivamente tale, occorre che sia articolato con l’Uno della Scuola, pena divenire un ostacolo all’avanzamento della psicoanalisi.
Sappiamo che Freud, inventore della psicoanalisi, di quella che oggi siamo soliti chiamare, la psicoanalisi “pura”, non si è dedicato esplicitamente alla psicoanalisi applicata. Eppure tutta la sua opera è densa di riferimenti, innanzi tutto alla cura delle psicosi che, sebbene egli giustamente ritenesse non suscettibili di essere trattate con la psicoanalisi così come lui l’aveva inventata, sono un costante riferimento nella sua elaborazione.
Nel 1918, nel testo Vie della terapia psicoanalitica, Freud scrive: “Proviamo ora a formulare l’ipotesi che mediante una qualche forma di organizzazione si riesca ad accrescere il numero di noi psicoanalisti tanto che esso possa bastare a prendere in trattamento una più vasta sezione della collettività umana. […] Saranno allora create delle case di cura o degli ambulatori dove lavoreranno un certo numero di medici con preparazione psicoanalitica”.
Possiamo leggere questo brano di Freud nel senso del legame che egli intravvede fra la possibilità di una pratica istituzionale (“case di cura o ambulatori”) di psicoanalisi applicata (“medici con formazione psicoanalitica”) e il fatto che gli psicoanalisti siano a loro volta legati in una forma istituzionale tale da consentire di accrescerne il numero, ma anche, possiamo aggiungere, di mantenerne l’orientamento, come psicoanalisti, appunto.
Sappiamo che sarà Lacan, con la fondazione della Scuola, a portare alle sue estreme conseguenze ciò che in Freud vediamo solo accennato. Lacan fonda la Scuola come l’istituzione che ha il compito di vegliare sulla formazione analitica, come l’istituzione che deve mettere al lavoro gli analisti affinché possano mantenersi nel solco della prassi analitica, ma d’altra parte, come dice molto presto nella sua elaborazione, l’analista non può (e dunque non deve) tirarsi indietro di fronte alle psicosi – oggi potremmo dire alle diverse forme del disagio della contemporaneità in cui la psicoanalisi può fornire un orientamento verso il reale, senza che sia possibile o opportuno praticare la psicoanalisi. C’è dunque un compito etico per lo psicoanalista, se egli vuole mantenersi “all’altezza della soggettività della propria epoca” (Lacan).
Però, come nella frase di Freud citata in precedenza, anche in questa frase di Lacan (l’analista non può tirarsi indietro di fronte alle psicosi) possiamo leggere la torsione möebiana che contiene: lo psicoanalista, dunque chi testimonia al collettivo psicoanalitico la propria formazione, ritrovandosi eventualmente ad essere stato psicoanalista nell’atto, non può tirarsi indietro di fronte alla psicosi, ovvero ha il dovere etico di ingaggiarsi nell’accogliere quei soggetti che, per diversi motivi, non accedono alla psicoanalisi pura.
La psicoanalisi applicata, dunque, non è e non può essere senza la psicoanalisi pura, e la pratica in istituzione solo si sostiene sul lavoro all’interno di quell’istituzione del tutto speciale che è la Scuola.
Un’istituzione speciale perché pone al cuore del suo funzionamento un non sapere radicale, quello che riguarda il suo stesso motivo di esistenza, un non sapere su cosa sia uno psicoanalista. Essa ha il compito di vegliare sulla formazione analitica e di assicurarne il fondamento, ma a partire da un paradosso fondamentale, ovvero che ‘Lo’ psicoanalista non esiste.
Le istituzioni sociali, in generale, si fondano precisamente a rovescio sul sapere, o sul supporre di sapere, cosa sia uno psichiatra, uno psicoterapeuta, un educatore, un insegnante, un medico, uno psicologo e così via. Suppongono di saperlo e sempre più costruiscono, non solo per gli individui di cui si dovrebbero fare carico, ma anche per coloro che all’interno di esse operano, protocolli e mansionari di comportamento, puntando ad un tutto sapere previo sulla pratica che sarebbe quella da svolgere e a ridurre al minimo la contingenza dell’incontro. Nessuno è esente dagli effetti di questa logica, dove il discorso del padrone è oggi sempre più infiltrato dal discorso del capitalista, che punta a cancellare la castrazione, a promuovere il tutto possibile, e a fornire a ciascuno l’oggetto di godimento che colmerebbe la divisione soggettiva. Le istituzioni oggi sempre più pongono chi vi opera come agente di questo discorso, che si tratti di fornire farmaci o buone pratiche, veloci, efficaci e senza resto, purché saturino l’urgenza soggettiva.
Per questo la pratica nelle istituzioni necessita per chi la svolge tanto più oggi di un luogo che si costituisca viceversa come Altro barrato, e si situi come luogo supplementare al discorso dominante. Supplementare e non complementare, dato che non si tratta di rivoluzionare la logica che domina nelle istituzioni sociali, bensì di affiancarle una logica diversa, una logica non-tutta, innanzi tutto sul piano del sapere. L’istituzione Scuola, come istituzione non-tutta, può rovesciare la logica del “tutto” che predomina nelle istituzioni sociali.
Ecco un primo motivo per il quale è fondamentale che la Scuola promuova dei momenti di lavoro, come quello di oggi, intorno alla psicoanalisi applicata, affinché quest’ultima non si sostituisca, non renda trascurabile, non cancelli la dimensione della formazione, bensì si trovi da questa costantemente bucata, rimandando ciascuno al legame con la causa che trova, nella Scuola, il suo luogo di messa alla prova.
C’è un secondo motivo, articolato necessariamente al primo, che vorrei sottolineare, e che mi pare una posta in gioco fondamentale per la psicoanalisi oggi: è la dimensione politica che la trasmissione della formazione analitica all’interno delle istituzioni sociali porta con sé. Si tratta di una trasmissione che può prodursi non tanto a livello degli enunciati e delle posizioni teoriche, bensì a livello della posizione di enunciazione che, eventualmente, ci si trovi ad occupare nell’ambito della pratica istituzionale.
Nelle istituzioni sociali e di cura, oggi, si assiste sempre più all’ascesa di un pragmatismo che si vorrebbe efficace, di veloce acquisizione e poco costoso. Imperversano le tecniche di intervento da apprendere il più velocemente possibile, i protocolli di comportamento, le procedure, le linee guida, che nascondono, dietro la promessa di semplificazione dell’azione e degli interventi, un riduzionismo feroce dell’essere parlante a puro elemento di calcolo economico.
La pratica all’interno delle istituzioni di chi si forma nella psicoanalisi può produrre la trasmissione di una logica diversa, una logica non solo che fa posto al soggetto e alla sua parola, ma anche che contrasta la spinta all’omologazione e, di conseguenza, alla segregazione.
Perché questa posta in gioco politica, urgente più che mai nella nostra epoca, possa essere posta all’ordine del giorno della pratica istituzionale, è dunque tanto più importante la dimensione della formazione personale, poiché all’interno delle istituzioni e dei legami che in esse si istituiscono, ciascuno che si riferisca alla Scuola ne è al contempo rappresentante e ambasciatore. Ciascuno ha la responsabilità di autorizzarsi ad essere portavoce della psicoanalisi e della sua etica, non senza tuttavia, potersi esimere dal mettere alla prova del collettivo analitico il proprio atto e i suoi effetti nell’istituzione.
[Testo introduttivo alla Giornata Nazionale sulla Psicoanalisi Applicata “Urgenza e crisi”, svoltasi ad Ancona il 10 dicembre 2016]