Jacques-Alain Miller

Intendo fare tre cose nel corso di questo intervento: contribuire alla riflessione della Scuola sul tema del nostro primo “Congresso scientifico”; proporre il tema del secondo Congresso, a proposito del quale abbiamo deciso ieri sera che avrà luogo l’anno prossimo a Roma; e, da ultimo, far avanzare il movimento della Scuola in formazione verso la sua creazione – la sua creazione da parte dell’AMP.
Questi tre compiti sembrano disparati. Non è per niente così. Un solo e medesimo movimento li percorre e vi si distribuisce. Una Scuola in formazione è un’unità dinamica; tutte le azioni concorrono al progresso del processo collettivo che conduce alla sua creazione; il Congresso è esso stesso un momento di questo processo.
La fondazione effettiva di una Scuola lacaniana in Italia non è un affare burocratico destinato ad essere regolato da un ristretto numero di persone riunite in disparte, da un conciliabolo di capi. Essa entra in un processo di formazione il cui concetto stesso comporta che si svolga “a cielo aperto” perché deve essere soggettivato da una comunità che può costituirsi solo nel movimento stesso di questa soggettivazione.
La Scuola non accade soltanto alla fine del processo. La Scuola accade alla fine assumendo la forma oggettivata di un nuovo soggetto di diritto, un’associazione senza scopo di lucro regolata dai suoi statuti e dal Codice civile. La Scuola, però, accade molto prima e prosegue molto dopo sotto altre forme. Essa accade durante tutto il processo della sua fondazione sotto forma di “Atti di Scuola” e la sua creazione effettiva come comunità prosegue ben oltre la sua fondazione legale.
La Scuola italiana non esiste ancora dal punto di vista legale. Dal punto di vista soggettivo, essa esiste eccome e noi ci riuniamo sotto il suo significante. Qual è lo statuto della Scuola prima di essere un soggetto di diritto? Essa è presa in un desiderio, essa accade sotto forma di desiderio prima di accadere come soggetto di diritto. È ciò che si tratta di delineare. Essa non esiste soltanto sotto forma di un desiderio vago o astratto, essa esiste già sotto forma di avvenimenti di Scuola, vale a dire di Conversazioni, di Assemblee, di Congressi come questo, di pubblicazioni, nella creazione di svariate entità di trasmissione e di ricerca, nella nuova articolazione data a delle entità già esistenti. E ci sono pure degli atti di Scuola, il più importante dei quali è quello di scandire il tempo logico della comunità in divenire.
Per scandire il tempo logico della Scuola, conviene individuare ad ogni momento la sua posizione esatta nel processo della sua formazione, rispetto alle coordinate fondamentali che la determinano. Tutto ciò sembra astratto ma non lo è affatto. Questa localizzazione l’abbiamo fatta ieri sera nella Conversazione e nel corso dell’Assemblea. Ed è anche ciò che voglio continuare a fare ora.
Oggi vi comunicherò una teoria della Scuola. Non l’ho mai esposta prima d’ora. L’istante dello sguardo, l’ho avuto ieri, il momento di concludere si è prodotto questa mattina al risveglio ed ho portato a termine la redazione di questi appunti un’ora fa, prima di recarmi alla mostra sulla Contessa di Castiglione. Se il sogno della notte sopporta la prova di esservi esposto, pubblicherò questo discorso come la mia “Teoria di Torino” – la mia “Teoria di Torino sul soggetto della Scuola”.
Sapere a che punto è la Scuola, individuare la sua posizione, non dipende da una pratica contemplativa, non consiste nell’osservare dei fatti oggettivi. In effetti, il sapere di cui io parlo è comunicato alla comunità della Scuola in formazione e, dunque, in questo modo contribuisce alla costituzione stessa di questa comunità che, in seguito, assumerà la forma di un’entità legale. La comunicazione di questo sapere, come la produzione di Atti di Scuola, ha come effetto quello di modificare il soggetto in corso di realizzazione. Questa proprietà permette di qualificarla come un’interpretazione. La vita di una Scuola è da interpretare. È interpretabile. È interpretabile analiticamente. Ecco la tesi che voglio sostenere. Questo è stato ancora poco compreso.
Dico questo con un’aria cattiva (risate). Non sono arrabbiato contro nessuno, se non contro me stesso. Ciò è stato poco compreso in primo luogo da me stesso. Ho girato intorno a questa tesi, ora la stabilisco.
Si è poco compreso che cosa sia una “logica collettiva”, espressione di Lacan che Éric Laurent è stato il primo, qualche anno fa, a rimettere in circolazione nel nostro uso. Tuttavia, che cosa ci dice Freud nel suo scritto sulla Psicologia delle masse? Lacan, che voleva tradurre questo titolo con “Psicologia dei gruppi e analisi dell’io”, ne riassume il contenuto in una frase: “Il collettivo non è niente – il collettivo non è nient’altro che il soggetto dell’individuale”. Che cosa significa questo? Che cosa dimostra Freud?
1. L’esperienza analitica è un’esperienza collettiva a due; la psicoanalisi non è confinata allo studio dello psicoanalista, essa permette di cogliere la molla della psicologia dei gruppi, delle formazioni collettive.
2. Le funzioni e i fenomeni messi in evidenza a livello del collettivo sono le medesime funzioni che si manifestano e i medesimi fenomeni che si dispiegano nella cura. Sono, nei termini di Freud, la funzione dell’io, quella dell’Ideale dell’io, il fenomeno dell’identificazione. Sto riassumendo, indico una direzione.
3. Ne deriva una nuova definizione del collettivo: il collettivo è fatto da una molteplicità di individui che assumono lo stesso oggetto come Ideale dell’io. Lo stesso Ideale dell’io è messo in posizione di comun denominatore di parecchi io individuali. Freud, a questo proposito, traccia uno schema che è stato riprodotto a più riprese da Lacan nel suo Seminario.
4. Il collettivo, le formazioni collettive, i gruppi, anche una Scuola, si analizzano come una molteplicità di relazioni individuali rispetto all’Uno dell’Ideale dell’io. Dal punto di vista freudiano, l’essere del collettivo è solo una relazione individuale moltiplicata.
5. L’emergenza di fenomeni di massa, quali quelli della folla a cui Freud fa riferimento a partire da Gustave Le Bon, presuppone un numero considerevole, presuppone l’assembramento di un numero considerevole di persone poste in una situazione identica. Questa evidenza, però, vela piuttosto che manifestare la struttura di questi fenomeni, la fa misconoscere. Delle discipline si stabiliscono a livello dei fenomeni di massa in quanto tali; dal punto di vista della psicoanalisi, la struttura del collettivo è costituita a livello del rapporto del soggetto con l’Ideale.
6. Freud, in questo modo, procede ad un’analisi del collettivo. È un’analisi nel senso che egli divide il collettivo in una molteplicità di rapporti singolari.
Questo è freudiano. Questo viene letto da Lacan nel testo freudiano. L’individuale non è il soggettivo. Il soggetto non è l’individuo, non è a livello dell’individuo. Ciò che è individuale è un corpo, è un io. L’effetto-soggetto che vi si produce, e che ne mette fuori posto le funzioni, è articolato all’Altro, quello maiuscolo. È ciò che si chiama il collettivo, o il sociale.
Ed è per questo che, nel senso di Lacan, il transfert non è per niente un fenomeno individuale. Un transfert di massa, come lo si vede tutti i giorni, è perfettamente concepibile: è un transfert moltiplicato, causato per un vasto numero di soggetti dal medesimo oggetto sostenuto dal medesimo soggetto supposto sapere, il quale si manifesta attraverso dei sentimenti sia negativi che positivi e che è costitutivo di un gruppo. Se questo, che è l’abc, è acquisito, passiamo alla pratica della Scuola.
Il posto dell’Ideale, in un gruppo, è un posto di enunciazione. Da qui, due modi distinti di enunciazione sono concepibili, praticabili. Semplifico per i bisogni della causa.
C’è un discorso emesso dal posto dell’Ideale che consiste nel mettere in opposizione “Noi” ad “Loro”. La differenza tra amici e nemici è considerata da Carl Schmitt, che ne sapeva qualcosa, il fondamento stesso dell’entità politica. Dal posto dell’Ideale, qualsiasi discorso che si fondi sull’opposizione amici/nemici e che la cementi, intensifica, in questo stesso modo, l’alienazione soggettiva all’Ideale.
Dal posto dell’Ideale può essere emesso un discorso opposto che consiste nell’enunciare delle interpretazioni. Interpretare il gruppo significa dissociarlo e rinviare ognuno dei membri della comunità alla propria solitudine, alla solitudine del suo rapporto con l’Ideale. Il primo discorso è un discorso massificante che si fonda sulla suggestione e, a dire il vero, resta sempre una quota di suggestione ineliminabile. Il secondo discorso è interpretativo e demassificante. È un’analisi della suggestione di gruppo.
Passiamo alla pratica, ho detto. Vediamo ciò che dice Lacan quando, nel 1964, egli fonda la sua Scuola, la Scuola freudiana di Parigi da cui deriva la nostra, la Scuola italiana in formazione.
Come procede Lacan in quanto fondatore di una formazione collettiva? Nel momento stesso in cui egli fa emergere dal suo discorso la Scuola, la Scuola finzione di linguaggio, la fa nascere dal suo discorso rivolgendosi ad essa per la prima volta, egli avanza, dice, “solo come sono sempre stato nella mia relazione con la causa analitica”.
In altri termini, egli avanza nella solitudine di un soggetto che è in rapporto con una causa da difendere e da promuovere. Egli avanza e si presenta non come un soggetto che si propone egli stesso come Ideale, ma come un soggetto che è in rapporto con un Ideale, come gli altri che invita a raggiungerlo nella sua Scuola.
Non è un annullamento dell’Ideale. Non c’è annullamento dell’Ideale nella Scuola. Se ci fosse un annullamento della funzione dell’Ideale, non ci sarebbe comunità di Scuola. Non c’è lo zero dell’Ideale, ma c’è questo, che Lacan rinvia ciascuno alla propria solitudine di soggetto, al rapporto che ciascuno intrattiene con il significante-padrone dell’Ideale sotto cui si pone. Nel momento stesso in cui Lacan istituisce una formazione collettiva, le sue prime parole sono intese a dissociare e a mettere in avanti la solitudine soggettiva, in quanto la Scuola freudiana di Parigi è una formazione collettiva che non pretende di far scomparire la solitudine soggettiva ma che, al contrario, si fonda su di essa, la manifesta, la rivela. Questo è il paradosso della Scuola.
La prima parola che Lacan rivolge alla sua Scuola nel momento in cui alcuni compagni si associano, è un’interpretazione. Essa è fatta per dissociare il soggetto dal significante-padrone e, in questo modo, il soggetto dal godimento che comporta il suo rapporto con il significante-padrone.
Si ammetterà senza dubbio la validità della pratica dell’interpretazione a livello del gruppo, ora che ho mostrato che questa era la pratica di Lacan, e si noterà che essa è stata costante. Affibbiare all’IPA il significante di SAMCDA, “Società di mutua assistenza contro il discorso analitico”, rimasto indimenticabile per i “post-lacaniani” che ormai la popolano, che cos’era d’altro se non interpretarla? Quando Lacan riportava la struttura stessa dell’IPA, e la sua deriva, al desiderio di Freud, che cos’era d’altro se non interpretare? Eccetera.
Si ammetterà questa dimensione della pratica dell’interpretazione ma si dubiterà che su questa si possa fondare una comunità. L’interpretazione, tuttavia, è al principio del legame sociale che si chiama un’analisi. La Scuola non è nient’altro che il tentativo di estendere l’applicazione del principio ad una formazione collettiva più ampia. “Ma l’interpretazione ha sempre un effetto disaggregativo. Se ognuno è rinviato alla propria solitudine, separato dal significante-padrone, come potrebbe sostenersi una comunità?” Questo è il paradosso della Scuola ed è la sua scommessa – che presuppone, in effetti, che sia possibile una comunità tra soggetti che conoscono la natura dei sembianti e il cui Ideale, il medesimo per tutti, non è nient’altro che una causa sperimentata da ciascuno al livello della propria solitudine soggettiva, come una scelta soggettiva propria, una scelta alienante, persino forzata, e che implica una perdita.
Ciò che Lacan chiama una Scuola è una formazione collettiva in cui, in teoria, ogni membro sa questo. Non lo sa nella forma che ho sviluppato per voi, poiché l’ho sviluppata solo oggi, ma ne sa qualcosa nella misura in cui è analizzato, in cui si analizza, nella misura in cui, concettualmente, ha colto ciò che insegna un’analisi e cioè che ciascuno è solo – solo con l’Altro del significante, solo con il proprio fantasma, che ha un “piede nell’Altro”, solo con il proprio godimento, estimo. La Scuola è una formazione collettiva in cui la vera natura del collettivo è nota. Non è una collettività senza Ideale, ma una collettività che sa che cos’è l’Ideale e che cos’è la solitudine soggettiva. La Scuola è una somma di solitudini soggettive e questo è il senso della nostra formula “uno per uno”. Se posso alterare a uso personale il titolo di un’opera americana di sociologia, che ha avuto il suo momento di gloria, incrociandolo con quello di un celebre romanzo di Carson Mc Cullers, direi: “The School is a lonely crowd”.
La somma delle solitudini presuppone l’uno-in-più. È qualch’Uno? È in primo luogo la “causa freudiana”, secondo la formula che dobbiamo a Lacan. Freud stesso, e i suoi allievi, parlavano della causa. La causa freudiana è un significante puro che tenta di nominare il rapporto che Freud aveva con questo Ideale che egli chiamava “la Causa” e che aveva fatto condividere ai suoi allievi.
Al re Enrico IV si attribuisce questa frase detta durante una battaglia:” Riunitevi attorno al mio pennacchio bianco”. Il nome proprio di Lacan è diventato un pennacchio di adunata. Lacan è diventato il simbolo, il significante-padrone, il significante vivente di un nuovo rapporto con la psicoanalisi, di modo che degli enunciati quali “Sono con Lacan” o “Non sono con Lacan”, “Sono contro Lacan”, “Odio Lacan”, sono serviti a numerosi soggetti come punti di riferimento per situare la loro posizione nella psicoanalisi ed hanno espresso delle forze reali che agivano nella psicoanalisi. “Non l’ho voluto”, dice Lacan, “non l’ho voluto che per il fatto di aver lasciato passare queste forze”. Diciamo che per lui è stata una scelta, ma una scelta forzata come sono le vere scelte. È diventato il suo pennacchio. Questo lo si può volere? È piuttosto una disgrazia, una scalogna, un colpo della sorte, un destino: o ci si lascia schiacciare o si tiene duro.
Non sono soltanto dei significanti ideali ad essere in gioco. È in gioco anche il rapporto di Freud-soggetto con l’oggetto-causa, il desiderio inedito che ha saputo ispirare ad altri soggetti e che è stato l’oggetto di una trasmissione. È anche il fantasma di Freud, il suo godimento. Il desiderio di Freud, come qualsiasi desiderio, si sostiene solo su un fantasma, non è un desiderio puro. “La causa freudiana” è un significante ideale, suscettibile di essere posto a comun denominatore da una comunità; ma non per questo esso era meno radicato nella solitudine di Freud, nel suo “auto-erotismo”.
Lo scarto esistente tra la causa del desiderio di Freud e la causa freudiana in quanto tale, Lacan lo ha interpretato, decantato, formalizzato. Ha trovato la logica del desiderio di Freud per separarlo dalla sua particolarità, per sradicarlo dal fantasma paterno, per trarne la forma detta del desiderio dell’analista.
Questo desiderio, comunque, non è un desiderio puro. È il desiderio di separare il soggetto dai significanti-padrone che lo collettivizzano, di isolare la sua differenza assoluta, di delineare la solitudine soggettiva e anche l’oggetto più-di-godere che si sostiene su questo vuoto e, al tempo stesso, lo colma. Questo è il desiderio di Lacan. La Scuola ne deriva.
Dal desiderio di Freud è derivata una comunità che ha preso la forma di una Società, la Società analitica, il cui fondamento è l’orda selvaggia descritta in Totem e tabù. Questa è legata a un padre che è un significante vivente dal quale, dopo la sua morte, deriva la costituzione di un sindacato fraterno, di un’élite di fratelli, una mafia insomma, attorno alla sua tomba. Il fatto è che tutto indica che il desiderio di Freud è stato trattenuto nella logica edipica in cui l’esistenza di un universale si sostiene sulla sua antinomia rispetto all’Uno-che-non-è-come-tutti-gli-altri. Per questo, il rapporto che la donna intrattiene con il proprio desiderio gli è rimasto opaco.
Il desiderio di Lacan ha portato al di là dell’Edipo e da questo deriva non una società analitica ma una Scuola. In una Scuola non c’è, almeno in teoria, un’eccezione una, un’eccezione solitaria ed antinomica rispetto all’insieme, come vuole la formula edipica. Non c’è un’eccezione ma un insieme o, piuttosto, una serie di eccezioni, di solitudini non paragonabili le une alle altre se non per il fatto che sono tutte delle solitudini strutturate come delle solitudini, cioè come dei soggetti barrati, fissati a dei significanti-padrone e abitati dall’estimità di un più-di-godere particolare per ciascuno. Nel quadro della Scuola, queste solitudini sono trattate ognuna come delle eccezioni ed esse sono non sindacalizzabili.
In questo senso, la Scuola è un insieme logicamente inconsistente. È un insieme di Russell, quello dei cataloghi che non contengono se stessi, un insieme senza universale, “fuori dall’Universo”, in cui non vale il “per ogni x”. Esso è “non-tutto”, il che non significa che sia incompleto, che gliene manchi sempre un pezzo, come di solito lo si intende. È “non-tutto” nel senso che è logicamente inconsistente e che si presenta sotto forma di una serie alla quale manca una legge di formazione. Questo è anche il motivo strutturale che fa sì che il movimento lacaniano si presenti sotto una forma essenzialmente dispersa; la stessa AMP non è che una-tra-altre.
Non c’è tutto della Scuola. La Scuola è un insieme antitotalitario per eccellenza, retto dalla funzione, che Éric Laurent ricordava ieri, di S di A maiuscolo barrato. Ne deriva che, paradossalmente, il solo enunciato capace di collettivizzare la Scuola è quello che la dice essere non-tutta. Ne deriva anche che istituire una Scuola, costituire le solitudini in comunità di Scuola, non è nient’altro che soggettivarla.
Che cosa significa “soggettivare la Scuola”?
In primo luogo significa: per ciascuno, uno per uno, adottare la Scuola come un significante ideale. Questo, però, implica che ognuno misuri lo scarto tra la causa particolare del proprio desiderio e la causa freudiana come significante ideale. Questo significa ripetere, ma per conto proprio, l’interpretazione di Lacan, non imitarla.
In secondo luogo, soggettivare la Scuola significa per ciascuno: essere membro della Scuola nella solitudine del proprio rapporto con la Scuola.
In terzo luogo, però, costituire questa comunità una non è nient’altro che fare della Scuola essa stessa un soggetto, un soggetto barrato.
Ecco la tesi che pongo a Torino: la Scuola è soggetto. È soltanto a questa condizione che una Scuola merita il suo nome, che ne vale la pena. Essa non vale la pena come un aggregato di statuti, di beni, di assemblee – che, ben inteso, sono comunque necessari. Una Scuola merita che la si fondi, merita che ci si aggreghi ad essa solo a condizione che essa sia un soggetto a tutti gli effetti.
Che cosa significa “la Scuola è un soggetto”?
Un soggetto non è una sostanza collettiva. “Mangiami”, “Questa è la mia carne, questo è il mio sangue”, Uno solo ha potuto dire questo e non era un soggetto ma un Dio. Si dovrebbe sapere che cos’è un soggetto, se si è letto Lacan. È necessario, però, assimilarne ancora il concetto. Sino a questo pomeriggio ho esitato a dire: “La Scuola è un soggetto”.
Ho cominciato a dirlo ma timidamente, nascondendolo nei giri delle mie frasi per vedere se mi avrebbero lanciato pietre e se sarei riuscito ad abituarmi a dirlo, a pensarlo. Oggi lo enuncio: la Scuola è un soggetto. Questo soggetto è determinato dai significanti dei quali è l’effetto poiché è questo ciò che definisce un soggetto, nient’altro. È per questo motivo che l’atto di porre i significanti che determinano la Scuola è un atto di assoluta responsabilità, poiché è un atto d’interpretazione che opera sul soggetto attraverso la parola. È anche per questo motivo che Lacan pensava che la Scuola avesse bisogno di analisti, di Analisti della Scuola (AE), di analisti capaci di analizzare la Scuola come soggetto. La Scuola ha bisogno di statuti legali, forse, senza dubbio, ma le servono soprattutto delle interpretazioni di se stessa come soggetto.
Quando stavo ancora avvicinandomi al tema della Scuola come soggetto, lo scorso mese di marzo, avevo fatto notare che Lacan aveva messo sulla copertina della rivista della sua Scuola, Scilicet, la seguente frase: “Tu puoi sapere ciò che ne pensa la Scuola freudiana di Parigi” e che, dunque, considerava la sua Scuola come un soggetto di pensiero. Questo significa che è la Scuola che pensa attraverso i suoi membri. Notate bene che la rivista di Lacan era fatta non di lavori collettivi, ma di contributi individuali ed è questo insieme di contributi, riuniti uno per uno, che egli presentava al pubblico dicendo: “Ecco che cosa ne pensa la Scuola”.
Qui si deve essere hegeliani, come Lacan stesso lo era, come ogni essere ragionevole lo è, sino a un certo punto. La Scuola è un momento dello Spirito oggettivo della psicoanalisi. Se non ci credete, se l’ipotesi non vi interessa, non entrate in una Scuola, non sapreste che farvene. Lacan, nel momento in cui invitava la sua Scuola a pronunciarsi con un voto relativamente alla sua Proposta del 9 ottobre 1967 intorno allo psicoanalista della Scuola , scriveva che si doveva supporre che lo spirito della psicoanalisi soffiasse tra i membri di quella Assemblea.
Se un giorno si farà la Scuola in Italia, se la Scuola è già all’opera tra noi, si deve ben supporre che è presente anche lo spirito della psicoanalisi. Si vorrebbe che fosse meglio, più brillante, più eclatante, sensazionale, ma, in fondo, se il Figlio dell’Uomo è nato in una stalla, lo spirito della psicoanalisi può soffiare anche a Torino questo pomeriggio.
Lo spirito? Nella psicoanalisi è il “Witz”. Parlare dello spirito della psicoanalisi è un motto di spirito. Lo spirito della psicoanalisi non è nient’altro che il soggetto supposto sapere e si tratta di istituire il luogo in cui esso si iscrive come effetto. Si tratta di far sì che la determinazione significante della Scuola, i suoi concatenamenti simbolici complessi, i suoi statuti, le sue pubblicazioni abbiano come effetto quello di istituire la Scuola come soggetto supposto sapere. È questo stesso soggetto che noi interroghiamo e, al tempo stesso, istituiamo quando facciamo votare un’Assemblea e quando raccogliamo come un oracolo la sua risposta, formata dalla scelta segreta di ognuno. Senza esaminare le interiora degli animali, ma chiedendo ad ognuno di mettere qualche simbolo su un pezzo di carta che in seguito viene fatto scivolare dentro una scatola. La risposta istituisce la Scuola come soggetto. La democrazia diretta non è una pratica anarchica – di fatto, tra gli anarchici c’è sempre un capo dell’orda che è ben presente e si deve rigare dritto -, la democrazia diretta è il dispositivo significante necessario a soggettivare la Scuola per farne un soggetto supposto sapere, intessuto delle nostre solitudini, che pensa e che risponde.
La Scuola-soggetto significa che la Scuola è un’esperienza inaugurale, nel senso dell’esperienza analitica. La Scuola è inaugurale nella misura in cui essa inaugura un nuovo soggetto supposto sapere e la sua storia è una successione di fenomeni soggettivi analizzabili.
In una Scuola tutto è di ordine analitico. È un assioma ed è la condizione stessa per cui una Scuola è interessante. Dato che vago lì dentro da quando mi ci sono trovato aspirato, aspirato dall’aspiratore Lacan, posso dirvelo: è anche una verità d’esperienza. Baudelaire diceva che nei testi di Balzac anche le portinaie hanno genio. Anche nella Scuola non c’è niente che non abbia il genio psicoanalitico, che non partecipi dello spirito della psicoanalisi. Certamente, può essere anche per difendersene, per rimuoverlo, per negarlo.
Si comprende la difficoltà di dare ad una Scuola degli statuti legali che assicurino l’interfaccia della Scuola con lo Stato. Sono due regimi logicamente distinti: la prima risponde alla logica detta del non-tutto, il secondo risponde alla logica universale. Ora, fra dei soggetti che rispondono a delle logiche differenti non c’è rapporto né dialogo possibile. Ci si parla, ma non è un dialogo, è un malinteso.
Ieri dicevo che la Scuola deve preservare la sua inconsistenza come il suo bene più prezioso, come il suo agalma. In questo essa è una società segreta, invisibile allo Stato, come l’analista stesso è inesistente agli occhi della legge. Non si tratta di una clandestinità ricercata, cospiratrice, ma dell’effetto della struttura logica del suo soggetto supposto sapere. La Scuola è essa stessa la lettera rubata, introvabile dalla polizia, quella polizia che, secondo Hegel, costituisce l’essenza stessa dello Stato. Certamente, per dare un luogo all’emergenza del suo soggetto supposto sapere, la Scuola costituisce un’associazione legale ma non è identica a quest’ultima.
Questa associazione, dunque, deve rispondere a delle leggi, cioè a degli enunciati che valgono per ogni x. Massimo Recalcati parla molto bene dell’inumanità della legge nel suo intervento per questo Congresso.  La legge inumana è qualsiasi legge, la legge è inumana per struttura perché trascura il particolare e ci sono dei giudici proprio per umanizzarla.
Un collega ci minaccia coi fulmini della legge, ci ricorda che la legge vale per tutti, che non ci sono eccezioni per gli psicoanalisti. Vorrebbe che la legge venisse ad imbrigliare il superio del gruppo analitico. Non sa che la voce che dice “Nessuna eccezione per gli psicoanalisti” è la voce stessa del superio?
Il superio, il suo eccesso, la sua cattiveria, sono, dunque, dalla nostra parte? Questo collega crede di aver scoperto in noi una volontà di fargli del male, di lederlo, una volontà capricciosa, arbitraria, autoritaria, e vorrebbe metterci sotto il giogo del Nome-del-Padre per civilizzarci e per proteggersi da noi. È la pura logica dell’Edipo: al desiderio capriccioso della madre da cui prenderebbe origine il superio, opporre la legge che vale per tutti, l’effetto pacificante del Nome-del-Padre. Da noi, però, si interpreta Kant con Sade e si sa che il Nome-del-Padre è solo una maschera del superio, che l’universale è al servizio della volontà di godimento. Lo si impara altresì ricordandosi di colui che ispira Kant, cioè il paranoico geniale, Jean-Jacques Rousseau: il bel fantasma della volontà generale non ha atteso a lungo per rivelare una golosità e una ferocia senza limiti.
La religione non si confonde con il diritto poiché essa conosce un al di là della legge che è l’amore e che mette il soggetto nella posizione che Rosa Elena Manzetti ci ricorda essere quella di Antigone.  La risposta di Antigone è quella che abbiamo saputo dare ieri sera. Chi si pone al di là dell’Edipo si accorge, come Lacan insegna, che il Nome-del-Padre e il superio sono le due facce del medesimo, che la legge in quanto universale è strutturalmente inumana, che il “per ciascuno” è emesso dal superio. La legge, in quanto si presume che nessuno debba ignorarla, implica l‘esistenza di un soggetto supposto sapere tutto. Il soggetto del diritto, come soggetto del sapere tutto, scompare come soggetto barrato, diventa impersonale, diventa il “si” del superio. Quello che sogna di obbligarci attraverso la legge non riesce a dissimulare la sua gioia maligna all’idea di ridurre il soggetto supposto sapere della Scuola in formazione con i mezzi del diritto. La legge esistente nell’inconscio, e che funziona in nome del Padre mentre in verità è quella del superio, è la legge fallica: “per ogni x, x fallico”. Ecco perché la donna è l’impensato dell’inconscio e non si potrebbe pensare la donna senza interpretare l’inconscio. La legge fallica determina ciò che Freud chiamava l’orrore della femminilità.
La legge morale di Kant si instaura rigettando “il patologico”, vale a dire il sentimento del piacere e della pena. Il fatto è che essa non vuole conoscere nessuna particolarità, nessuna circostanza, nessun dettaglio. Questo “non voler conoscere” non è quello della rimozione ma quello della preclusione: c’è una paranoia della legge, un godimento paranoico nel parlare in suo nome ed è per questo che non c’è solo la legge ma anche dei giudici che sono gli interpreti, i terapeuti. C’è anche un sadismo della legge, la legge fa soffrire ed è per questo motivo che c’è il giudice per umanizzarla.
Un mondo senza giudici, in cui la legge non avesse interpreti, in cui l’inumanità universalizzante della legge si applicasse senza mediazione con il particolare, non sarebbe il mondo di Kant ma il mondo di Kafka. Quelli che hanno ascoltato ieri sera all’Assemblea ordinaria Maurizio Mazzotti hanno avuto un saggio della stratificazione della legge, sottolineata in questo congresso da Éric Laurent, del suo dedalo, del suo carattere labirintico, del numero di soste che si devono fare presso i suoi esperti che sono d’accordo e che non lo sono. Per dirlo con una parola, è impossibile ridurre con il “per ogni x” l’impossibile del rapporto sessuale. La formula folgorante di Marco Focchi  lo riassume a proposito degli Stati Uniti: “La legge diventa un kamasutra”.
Ieri sera è stato un momento importante. Abbiamo visto la Scuola in formazione rifiutare lo scontro che le proponeva B* ed interpretare il discorso di quest’ultimo. È il discorso di un collega il quale, dopo aver condiviso con noi i mutamenti di una lunga gestazione che dura da più di vent’anni, indietreggia oggi di fronte all’instaurazione della Scuola, del suo nuovo soggetto supposto sapere, e sceglie di restare nel regno del Padre. Il dibattito è tra il salutare “per ogni x” della legge e l’Uno solitario, l’Uno d’eccezione che sarebbe Jacques-Alain Miller? Jacques-Alain Miller non è solitario, è un “almeno-uno” che dà testimonianza della propria differenza e che non si risparmia affinché ce ne siano altri a farlo. Ed è proprio perché ce ne sono altri che una Scuola è possibile. Il posto di enunciazione che occupa Jacques-Alain Miller non comporta l’esclusività; comporta che altri lo occupino ugualmente, che debbano occuparlo, che lo occupino effettivamente. Come dice Spinoza: “appartiene alla mia felicità che altri capiscano quanto io ho compreso”, di Lacan, della psicoanalisi, della Scuola e, in particolare, dell’eminenza di questo posto da cui la Scuola è interpretabile e in cui i suoi analisti sono attesi.
Ieri sera abbiamo visto emergere nella nostra esperienza di Scuola la funzione del tempo logico. Il momento di concludere non era giunto e Maurizio Mazzotti, che ha saputo assumere per noi “il passo indietro” necessario per resistere alla suggestione aggressiva indotta dal discorso di B*, merita che gli si renda omaggio. Non cerchiamo altrove il tema del nostro prossimo Congresso: “Il momento di concludere”.
È il titolo di uno degli ultimi seminari di Lacan. Studiamo il momento di concludere nella seduta e nella cura, la sua logica, la dialettica in cui entra con l’instante di vedere e con il tempo per comprendere, il rapporto fra il tempo e la durata. Qui non posso fare di meglio che citare Marco Focchi quando evoca il modo singolare che ciascuno ha di rispondere all’inesistenza del rapporto sessuale: “Sappiamo bene i tempi di attesa, le accelerazioni, le sorprese, le fughe, gli indugi, i lampi improvvisi che intervengono quando, nell’esperienza psicoanalitica, ci mettiamo sulle tracce di questa singolarità”.  Ecco ciò che dà il là, che dà il tempo,  che costituisce il programma della nostra prossima riunione scientifica.
Vedremo se, nel lasso di tempo che ce ne separa, si condenserà un transfert di massa verso la Scuola sufficiente a che un’ultima urgenza ci forzi, alla fine, a dichiarare istituita tra di noi la Scuola come soggetto supposto sapere.

[Intervento al I Congresso scientifico della Scuola lacaniana di Psicoanalisi (in formazione), il 21 maggio 2000, il cui tema era: “Le patologie della legge. Clinica psicoanalitica della legge e della norma”].

Traduzione: Adele Succetti