Questa causa, in una cura analitica, si rivela come un vuoto e dunque sta lì il paradosso: in che modo il vuoto della causa può annodarsi in un’azione collettiva.

Cristhiane Alberti, Il femminile è l’Altro per eccellenza, in Virtualia, n° 40, 2021

Responsabile: Laura Storti – retelacan@gmail.com
Redazione: Eva Bocchiola, Sergio Caretto, Adele Succetti, Sebastiano Vinci, Giuliana Zani
Grafica a cura di: Matteo De Lorenzo
Per il sito: Omar Battisti

Sommario

Rete Lacan n°37 – 16 novembre 2021

in copertina:
Joan Miró – Esculturas, 1928-1982
Exhibition view at Centro Botin Santander – foto: Belén de Benito

Nota editoriale

Laura Storti – responsabile Rete Lacan

In apertura di questo numero troverete l’intervista che Christiane Alberti ha rilasciato alla rivista online Virtualia, dal titolo Il femminile è l’Altro per eccellenza, nel quale si tratta dell’incontro impossibile tra il femminile e l’ideologia femminista.
A seguire il testo di Sebastiano Vinci sull’intreccio tra il tempo dell’immigrazione e quello della giustizia, inteso come tempo necessario al riconoscimento del diritto a essere accolto nel nostro paese, in quanto minore non accompagnato.
Successivamente, il contributo di Gelindo Castellarin che nasce dal desidero di lavorare alla costruzione di «un possibile vademecum per un Consulente del Giudice, chiamato a rispondere sulla identità di genere di un soggetto in transizione».
Per passare poi al testo di Simona Galimi che testimonia di un lavoro svolto in una struttura ospedaliera con genitori di bambini e bambine disabili. Il testo mette in luce un esempio di psicoanalisi applicata che fa emergere la posizione dell’operatore psicoanaliticamente orientato.
Ancora troverete la traduzione dell’intervista di Inna Shevchenko ad Asrna Nomani che tratta dell’ideologia woke che sta sviluppando velocemente la sua influenza sul sistema educativo pubblico negli Stati Uniti. Asrna Nomani è una donna di origine indiana, giornalista e militante per la riforma dell’islam, arrivata negli stati uniti da bambina.

A chiusura di questo numero vi proponiamo il primo di alcuni contributi che sono il frutto del lavoro di un’équipe di collaboratori che affiancherà il lavoro della redazione.
L’idea è quella di fornire spunti di riflessione e approfondimenti su alcuni temi.
In questo numero troverete il primo contributo alla rubrica La psicoanalisi tra le righe tenuta da Fabio Galimberti.

Buona lettura.

Il femminile è l’Altro per eccellenza*

“Virtualia” intervista Christiane Alberti1, membro AME ECF e AMP

«Per chi si interroga sul femminile, la storia del femminismo costituisce un insegnamento essenziale, sia clinico che politico».

Inizia così l’editoriale che Christiane Alberti scrive in LQ 9142. A partire da questo testo ‘Virtualia’ elabora la seguente intervista.

Virtualia: Cominciamo da quello che lei colloca, seguendo Annie Le Brun, come “neo-femminismo”. Ci piacerebbe sentire la sua lettura di questo fenomeno.

 

Christiane Alberti: Il femminismo ha subito molti cambiamenti dai famosi giorni delle Suffragette. Quando Annie Le Brun parla di neo-femminismo si tratta del femminismo degli anni settanta. Ma è interessante sottolineare che la sua critica mette in luce, già in quegli anni, i limiti di una tendenza dominante nel discorso femminista contemporaneo. Dico una tendenza, poiché non si tratta di mettere in discussione la validità della lotta femminista quando si batte per la parità di diritti, quando combatte le ingiustizie e la violenza contro le donne in nome dell’universalismo illuminato. L’asse essenziale della critica di Annie Le Brun, che mette in luce il femminismo che conosciamo oggi, fa riferimento alla logica identitaria che il discorso neo-femminista comporta. È una critica all’ideologia femminista quando vira verso il discorso “corporativista”. Anzi, è molto presente nell’attuale discorso neo-femminista, che rivendica una specificità femminile che sarebbe esclusiva delle donne, così come il maschile sarebbe la specificità degli uomini e così facendo cancella le differenze specifiche, quelle che riguardano le donne prese una per una, a favore delle differenze di genere. È un discorso che tende a far consistere l’insieme di tutte le donne, insomma La Donna.

Differentemente dalle femministe del Settecento e dell’Ottocento che hanno cercato di cancellare l’illusoria differenza che legittimava il potere degli uomini sulle donne, il neo-femminismo tende a ristabilire la realtà di una differenza di genere, la quale si produce sempre a detrimento della singolarità di ciascuna donna.Soprattutto in nome di questa rivendicazione possiamo comprendere che si tratta di imporre un modo di essere, un modo di godere e un modo di parlare. Il femminismo, come discorso, può portare alle stesse impasses che sostiene di combattere: la dittatura del medesimo e, soprattutto, una forma di controllo del linguaggio e dei corpi.

V.: Lei sottolinea che Le Brun non ignora la realtà della miseria delle donne nella storia e nel mondo. Ricordiamo che l’AMP è un organo di consultazione dell’ONU Women la cui missione è proprio quella di trovare soluzioni alle disuguaglianze che subiscono le donne nel mondo. La psicoanalisi ha qualcosa da dire a quei settori che cercano soluzioni alle condizioni di disuguaglianza che colpiscono ancora oggi le donne nel mondo?

C.A.: Se l’AMP è un organo di consultazione è perché gli psicoanalisti non possono ignorare le vicende del mondo sociale e politico. È ciò che li ha portati a prendere posizione sul matrimonio egualitario in Francia, o più recentemente, nel dibattito sulla questione trans. Ma siamo precisi. Gli psicoanalisti non intervengono in nome del discorso politico o di un’ideologia. La loro posizione trascende le loro convinzioni personali. Questa si basa sull’esperienza e sulla pratica della psicoanalisi e, come tali, gli psicoanalisti sono in grado di far luce e combattere tutte le forme di segregazione che colpiscono le donne. Perché la risposta della psicoanalisi è sempre e ovunque antisegregativa. L’esperienza dell’analisi porta un soggetto a prendere le distanze dalle identificazioni di massa, che spingono sempre gli individui a collocarsi in un gruppo contro un altro: loro e noi.

V.: Lei sottolinea che nella sua critica Le Brun ci conduce direttamente al cuore dei discorsi contemporanei. Come pensa si possa intervenire, strategicamente e politicamente attraverso l’orientamento lacaniano, nei confronti dei movimenti femministi contemporanei, che, come lei afferma, «fanno dell’altro un intruso a priori»?

C.A.: In effetti, la guerra dei sessi si è spostata nello spazio pubblico e la guerra politica nel livello intimo, con la nota di demonizzazione degli uomini, cosa non nuova al femminismo d’oltre Atlantico.La psicoanalisi di orientamento lacaniano chiarisce come il declino dei beni comuni e dei fondamenti del legame sociale si accompagni a una spinta globale verso la segregazione. Il movimento femminista non fa eccezione, soprattutto quando assume la forma radicale del discorso separatista: le donne separate dagli uomini nell’amore o nella vita sociale. Un neo-femminismo radicale, che può arrivare fino al separatismo lesbico, riconduce così ogni donna al suo corpo (incluso al suo colore), a una frammentazione infinita. Il risultato sarebbe un attacco alla cultura e al legame sociale se si considera che la struttura delle comunità che emergono è fondata sull’immaginario dei corpi, in cui siamo simili. Una comunità di fratelli senza il mito del padre morto? L’unica risposta al reale pulsionale sarebbe allora il gruppo, insomma una falsa fratellanza, una sorellanza di corpi. Exit del soggetto, exit del desiderio, e non una parola sul godimento.Si tratta di interpretare questa aspirazione alla “separazione”, come l’ha ben definita Jacques-Alain Miller, come la forma sociale più perniciosa della pulsione di morte, che potremmo chiamare la “pulsione segregativa”. Esacerba le tendenze che conducono allo scontro di noi contro loro; noi, le donne contro loro, gli uomini. In un’epoca in cui i legami sociali fondamentali si stanno sgretolando, il separatismo è un’impasse: l’urgenza è piuttosto quella di lavorare per rispondere alla domanda: come convivere con l’altro?

V.: Le Brun mette in tensione il discorso del neo-femminismo che, «poiché parla a nome di tutte le donne, cerca di cancellare l’individualità di ogni donna», con la propria posizione, che cerca di spiegare dicendo: «Ho fondato la mia causa sul vuoto». Lei sottolinea l’importanza di sostenere il vuoto, che si rivela come causa in una cura analitica, senza che diventi bandiera. In questa linea propone che la causa di ciascuno possa essere unita all’impulso dell’azione collettiva. Come fare una trasmissione a partire dal nostro orientamento che metta in tensione il vuoto, la causa, con il movimento collettivo, di fronte alla frantumazione del neo-femminismo?

C.A.: In effetti è una questione complessa, sia tattica che strategica. Ma soprattutto lei pone la domanda sulla specificità del rapporto con la causa analitica. Poiché questa causa iscrivendosi controcorrente al politico come discorso di dominio, si allontana da un ideale di causa collettiva. Allora, come sostanziare che è dalla nostra condizione di psicoanalisti che è concepibile un intervento? Nell’insegnamento di Lacan non mancano riferimenti al rapporto dello psicoanalista con il politico. Si tratta sempre di essere connessi con la soggettività di un’epoca. Il nostro impegno si basa su una scelta fondata sulla causa di un soggetto e non sulla scelta di una causa politica o ideologica. Ciò che ci fa agire proviene da un altro registro.Di quale causa si tratta? È la causa che in noi, più di noi, ci spinge ad andare avanti, a dire, a fare: la causa del “in noi, questo vuole”. Questa causa, in una cura analitica, si rivela come un vuoto e dunque sta lì il paradosso: in che modo il vuoto della causa può annodarsi a un’azione collettiva? La causa di un soggetto non si presta affatto a essere uno stendardo, né appare all’orizzonte come un ideale.Tuttavia non si procede sulla scena del mondo mostrando quel vuoto; è necessario, in qualche modo, assumerlo e sostenerlo. In altre parole, ciò che un soggetto estrae da una cura diventa il motore dell’atto e, collocato nell’Altro, è agganciato al linguaggio, all’S1. Si unisce così all’impulso dell’azione collettiva o alla solidarietà di un collettivo. A tal fine, la causa si connette all’altro, passando per una necessaria nominazione: la causa analitica nomina il vuoto su cui si fonda. Una volta nominata, questa causa può assumere i sembianti dell’azione collettiva che implicano la speranza di una mutazione (l’ideale necessario per assumere e sostenere il vuoto). Quindi non è incompatibile con l’azione in campo politico a condizione di non confondere questa nominazione con i significanti dell’ideale, purché si tenga conto del vuoto correlato alla causa.

V.: In una serie di casi della nostra pratica, constatiamo che il fantasma e le fictions dell’ideologia femminista dominante si alimentano a vicenda producendo a volte, in queste donne, un’esasperante sopravvalutazione volta a verificare se il loro comportamento è sufficientemente femminista o decostruito quando sono con altri. Come pensa la clinica queste nuove manifestazioni del disagio attuale?

C.A.: In effetti, nell’ordine del discorso si è fatto un passo verso una cultura del contratto in cui i diritti e i doveri di ciascuno sono codificati in norme rigide, in particolare, per garantire il politicamente corretto femminista o il consenso, grande significante padrone contemporaneo, il cui obiettivo è sempre quello di ricercare una tutela contrattuale dei “deboli” contro i “forti”. La tendenza attivista tende a ridurre questo scontro a una mischia che fa appello alla legge del più forte.A livello clinico e pratico, l’esperienza quotidiana della pratica della psicoanalisi ci permette di sapere che l’odio è una fonte importante della nostra soggettività, che è al centro dell’esperienza umana. Tuttavia è un equivoco pensare che un’analisi porti a seguire il proprio inconscio. Un’analisi porta a svelare il proprio inconscio, appunto, per disattivare tutto ciò che danneggia un soggetto, sia nella sua vita personale che nella sua vita sociale, le tendenze più oscure, più deleterie, che si scoprono in se stessi come più forti di se stessi.Curare queste inclinazioni oscure in se stessi può consentire a un soggetto di essere parte di un legame sociale autenticamente civilizzato.

V.: Come pensa un possibile dialogo tra femminismo e psicoanalisi?

C.A.: Si, il dialogo è possibile perché possiamo sempre contare sulla pratica della conversazione ogni volta che le condizioni lo permettono. I nostri colloqui, i nostri congressi, i nostri forum, le nostre pubblicazioni sono luoghi di conversazione con il pubblico. Anche le nostre pubblicazioni sono modi di intervenire nel dibattito contemporaneo. E il fatto che la prossima Grande Conversazione Internazionale dell’AMP abbia scelto come titolo La donna non esiste mostra che gli psicoanalisti hanno intenzione di intervenire nel dibattito contemporaneo, in particolare sulla questione delle donne, nell’era post me too.

V.: Nel video di TV Lacan, lei parla di un “femminismo dei corpi”. Come intende questa questione?

C.A.: La eco virale che ha accompagnato il movimento globale me too mostra che il femminismo, in quanto discorso, è cambiato: passiamo da un femminismo politico nel senso moderno cioè un femminismo dei soggetti (universalismo dei diritti) a un femminismo dei corpi. La novità è che il femminismo, in quanto discorso, si è spostato a livello del proprio corpo. Questo indica, al tempo stesso, una continuità storica – secondo Michèle Perrot la storia del femminismo è «una storia del corpo delle donne» – con il MLF o il Women’s lib degli anni settanta, nella misura in cui si trattava anche dei diritti di disporre del proprio corpo e uno dei famosi slogan era «I nostri corpi, noi stesse»; e una discontinuità storica, nel senso che è il proprio corpo quello che avviene nel luogo dell’emancipazione, il luogo della lotta politica, incluso il corpo in pezzi staccati: i seni, i peli, il flusso mestruale. Questo mette in evidenza che quel che non è stato trattato dal femminismo universalista, né in un certo modo dal movimento LGBT, ora sembra manifestarsi nella forma di una rivendicazione femminista o di “femminilità” del proprio corpo, in una frammentazione infinita e, di conseguenza, in una segregazione infinita. Insomma, a mano a mano che si vincono battaglie per l’uguaglianza dei diritti, si svela progressivamente ciò che del femminile fatica a trovare posto nel discorso universale, sempre virilizzante.

V.: Riferendosi a Le Brun, lei propone che ci sia una ricerca di femminilizzazione del linguaggio per neutralizzare la dominazione patriarcale e che questa proposta, in extremis, potrebbe scatenarsi in “censura”. In Argentina c’è un movimento che propone, per andare al di là del genere, un “linguaggio inclusivo” che fa terminare le parole con la vocale ‘e’. Lì si percepisce non un effetto di censura ma piuttosto il tentativo di rinnovare il linguaggio considerando la diversità. Esiste in Francia un movimento simile? Che cosa ne pensa?

C.A.: Si anche in Francia la nozione di molestia si è generalizzata al punto che si tende a ‘purificare’ la propria lingua dai malintesi, e soprattutto a svuotarla di tutto ciò che potrebbe risultare offensivo. Si tratta anche della pretesa folle di voler parlare fuori dal corpo e fuori dal genere. Questo movimento, che tende a esercitare un vero controllo poliziesco sul linguaggio, riprende un’idea non nuova: scomponendo la parola arriveremo all’estremo della cosa, la distruzione del fallo. Questo tratto, nei suoi estremi, risuona come una vera ‘censura’ anti-illuminista. Uso il termine ‘censura’ nel senso in cui Barthes, nel suo Sade, Fourier, Loyola, ha potuto dire che la vera censura non consiste nel proibire, bensì nell’imprigionare in stereotipi, nell’obbligare a parlare in un certo modo.
Restiamo dialettici. Da un lato c’è il negativo, il rifiuto; si tratta di rifiutare tutto quello che, nella lingua, può risuonare come una dominazione maschile, in definitiva, tutto quello che è dell’ordine del virile. Però questo non va forse nella direzione di promuovere un nuovo padrone? E in particolare di occupare, disconoscendolo, il luogo di padrone della lingua?
Dall’altro lato c’è l’aspirazione. Possiamo vedere in questa rabbia purificatrice della lingua, con sintagmi fissi ed eufemismi, il tentativo disperato di trovare o di imporre la parola giusta, la parola vera, la parola nuova per alloggiare quel che precisamente non si può nominare – perché non è un linguaggio – ovvero, la parte femminile di ogni parlessere? La parola nuova emerge fondamentalmente da ciò che manca.
Quindi non dobbiamo forse leggere questo movimento nella cornice di ciò che Jacques-Alain Miller ha chiamato “aspirazione alla femminilità” contemporanea? Aspirazione perché siamo fondamentalmente separati da essa, il femminile è l’Altro per eccellenza. Il femminile, di cui Jacques-Alain Miller segnala la crescente importanza, non è dell’ordine di un nuovo padrone per la chiara e semplice ragione che sfugge in quanto tale a ogni dominio, a ogni sapere ed ex-siste ai sembianti del genere.
Nel voler cambiare la lingua in senso radicale, si impone un “muro di linguaggio” senza nessuna sfumatura: rifiutare ogni sembiante ci conduce a una logica sul corpo, non sulla conversazione tra i sessi, ma sul silenzio consustanziale alla violenza: lo stupro o l’omicidio. Su questo versante non ci si dirige agli uomini, ma a “tutti gli uomini”, ovvero all’universale di “Tutti gli uomini sono mortali”: “tutti” non ha alcun senso, ci dice Lacan, ‘tutti’ si concepisce solo attraverso la morte.
Quello che è cominciato con il voler cambiare la lingua (con il compito interminabile del politicamente corretto, l’espulsione delle micro-aggressioni, la femminilizzazione della lingua), espellere il fallo dalla lingua, sfocia nel corpo e, logicamente, nell’assenza di dialogo tra i sessi.
Tenendo conto di questo, un’analisi è l’opportunità di rendere attuale, con un analista, non solo i malintesi che abbiamo con l’altro sesso ma anche i malintesi che ognuno ha con se stesso. Da questo punto di vista è un’esperienza anti-segregativa perché la differenza che estraiamo ci dà l’identità di un genere speciale, quello del sintomo, ovvero un marchio singolare che non si può collettivizzare e che, di conseguenza, sfugge a ciò che, per Lacan, costituisce l’inclinazione di ogni discorso cioè la dominazione. 

V.: In questo video lei fa notare che Lacan riconosce alle donne l’invenzione della lingua. Potrebbe dire di più su questa idea?

C.A.: Vi propongo di aspettare e di avere pazienza perché questa domanda sarà oggetto di uno dei temi della Grande Conversazione. A partire dal mese di settembre verrà pubblicata una serie di temi nella pagina web della Grande Conversazione https://www.grandesas­sisesamp2022.com/la-femme-nexiste-pas-2/ e lì potrete leggere un formidabile contributo di Philippe La Sagna che verte proprio su questa questione.

Quindi ci vediamo on-line!

https://www.grandesassisesamp2022.com

Traduzione: Laura Storti e Giuliana Zani

* Intervista pubblicata sulla rivista Virtualia, rivista digitale della EOL:  http://www.revistavirtualia.com/articulos/889/destacados/lo-femenino-es-lo-otro-por-excelencia
[1] Christiane Alberti, Direttrice della Grande Conversazione Virtuale Internazionale dell’AMP, “La donna non esiste”, dal 31 marzo al 3 aprile 2022.
[2] L’articolo è stato pubblicato su Rete Lacan n. 25, disponibile qui: https://www.slp-cf.it/rete-lacan-n-25-20-marzo-2021/#art_2

Tempi delle migrazioni, tempi della giustizia

Sebastiano Vinci – membro SLP e AMP – Palermo – ottobre 2021

Nell’approfondire le tematiche relative al rapporto tra MSNA1 e giustizia, è necessario considerare la temporalità dei percorsi migratori dei soggetti provenienti dai cosiddetti “altri mondi”, collocando questa temporalità in quel periodo storico che è caratterizzato, da una parte dalla smania coloniale delle nazioni occidentali, alla ricerca di beni da depredare a chi non ha avuto la possibilità di difenderli e, dall’altra, dall’ingresso dei cosiddetti migranti nei Paesi occidentali, tra cui l’Italia, terre di approdi e di illusioni dopo l’orrore vissuto e scritto sul corpo di ciascuno. Il considerare questa temporalità e l’interrogarla, ci consente di entrare nel merito di ciò che ha spinto i giovani ragazzi e ragazze provenienti dagli altri mondi, a mettere a rischio la propria vita, a separarsi dalla propria terra e dai propri legami familiari e culturali, senza che la propria terra, i propri legami affettivi, riuscissero a trattenerli dalla progettualità e dal pensiero migratorio. In fondo, ciò che constatiamo è che non c’è più qualcosa e qualcuno che li tenga. Le politiche coloniali, con le loro azioni predatorie, hanno concorso a rendere prive di potere le strutture sociali e i legami simbolici che tenevano unite le popolazioni e che permettevano, pur con le loro differenze etniche, il rispetto di norme e regole di convivenza, i sistemi interni di potere, il riconoscimento delle autorità e il loro prestigio simbolico. Il mondo virtuale, poi, ha sancito con le immagini illusorie veicolate dalle nuove tecnologie attraverso internet, la possibilità di condividere spaccati di culture altre, di proporre modi del vivere quotidiano, lontani dalle modalità con cui altri popoli hanno tessuto le loro vite e con le quali hanno condotto le loro esistenze. Lo scambio di informazioni attraverso video, testi, immagini non ha avuto rivali rispetto a ciò che rimaneva della trasmissione di sapere originaria e che caratterizza e costituisce la storia della cultura, delle tradizioni e dei sistemi simbolici di una popolazione. In questo senso non vi è più nulla che tenga…non tiene più la tradizione e la cultura di un popolo perché le politiche coloniali hanno instillato il germe della violenza e la distruttività che è insita nell’introduzione di norme e valori, leggi e religioni che non appartengono alle popolazioni dominate, colonizzate, razziate. Il termine “razzia” viene dall’arabo ghaziyya, la forma magrebina di ghazwaincursione” e sta ad indicare, secondo il Vocabolario della Lingua Italiana Treccani, la «spedizione armata, scorreria o incursione in territorio nemico o comunque straniero, effettuata da predoni o truppe irregolari allo scopo di devastare o saccheggiare portando via viveri, animali e anche persone». Questo termine, che per assonanza e per il fatto di condividerne la radice, è “imparentato” con quello di “razzismo” e di razza, ci permette di accennare alla questione di quanto tali manifestazioni e atteggiamenti siano ancora presenti nell’ambito del diritto, della legge e della cultura anche in quegli Stati che hanno fatto propria una legislazione che può definirsi “antirazzista”, contrarie, cioè, alla discriminazione razziale nei riguardi di gruppi etnici di colore o a minoranze diverse dalla maggioranza egemone, come la storia degli Stati Uniti d’America, per esempio, ci ha mostrato non solo nel suo passato ma che continua, tutt’oggi, a proporre. Il razzismo, quel «complesso di manifestazioni o atteggiamenti di intolleranza originati da profondi e radicati pregiudizî sociali ed espressi attraverso forme di disprezzo ed emarginazione nei confronti di individui o gruppi appartenenti a comunità etniche e culturali diverse, spesso ritenute inferiori»2 presenta le sue credenziali, nascondendosi, non solo all’interno di articoli di legge che rispecchiano i valori e i principi giuridici e culturali di una nazione ma, anche, in quelle convinzioni intellettuali o, piuttosto, intellettualistiche, che si  insinuano all’interno di leggi “antirazziste” che hanno avuto modo di essere promulgate nella maggioranza degli Stati, a partire dagli anni quaranta, grazie all’azione dell’UNESCO, impegnata a far sì che si costruisse un programma di diffusione di fatti scientifici atti a far scomparire i cosiddetti pregiudizi di razza.

In questo scenario politico, culturale e legislativo, i cosiddetti migranti, minori o adulti che siano, coloro che scappano dai loro Paesi per le condizioni di estrema povertà in cui versano o dalle guerre etniche interne che nessun sistema sociale è più in grado di gestire e contenere, i cosiddetti migranti si trovano a dover fronteggiare un sistema legislativo italiano che se da un lato, per ciò che riguarda i minori anche se entrati irregolarmente in Italia, è estremamente garantista, in quanto titolari di tutti i diritti sanciti dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, ratificata in Italia e resa esecutiva con legge n. 176/91, dall’altro si trovano spesso a fronteggiare passaggi burocratico-formali che sembrano ripercorrere, nel loro immaginario, gli scenari traumatici che hanno vissuto fin nelle pieghe più recondite del loro corpo e che si sono insinuate nei loro ricordi, alterando la  visione della loro esistenza e annullando la volontà progettuale. Davanti alle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, coloro che sono chiamati a rendere la loro testimonianza si trovano posti di fronte al duplice aspetto insito proprio in ciò che viene loro richiesto: raccontare la loro storia migratoria, la loro verità ed essere, contemporaneamente, soggetti a una valutazione, valutazione che entra nel merito del loro dire al fine di ottenere il permesso di soggiorno. Così, se raccontare la verità da un lato ha un indubbio valore terapeutico, dall’altro comporta un imprescindibile valore politico, come del resto è ogni testimonianza, la cui dimensione non può che essere sempre privata e pubblica, politica e giuridica. Questo porta a interrogarci, inoltre, su che valenza attribuire alla narrazione dell’esperienza migratoria e sulle motivazioni che ne hanno reso la sua attuazione, se il racconto del trauma cioè, sia da ascrivere dal lato della realtà dell’esperienza vissuta, così intrisa di forti valenze destrutturanti e traumatiche o, piuttosto, sia da ascrivere sul piano della verità, che è fatta di parole attraverso le quali il soggetto trova l’unico modo di rappresentare e storicizzare il proprio esserci. Questa dicotomia entra pesantemente in gioco, proprio quando le Commissioni Territoriali sono chiamate a valutare l’attendibilità dei fatti narrati e le esperienze vissute, sancendo spesso con le loro valutazioni, quel “trauma intenzionale” che, in un tempo neanche tanto passato, si è imposto. Il trauma intenzionale è un trauma indotto, voluto da esseri umani o da quelle costruzioni ideologiche o credenze che mette in atto una concezione del rapporto con l’Altro basato sulla violenza, lo sfruttamento e l’asservimento. La forza espressa dal trauma, dunque, dice al contempo sia il sistema che la alimenta che la radice umana abitata da una pulsione mortifera che trova, nell’intenzionalità, il suo modo di esprimersi: lo fa attraverso la tortura, la disumanizzazione, la decultoralizzazione con l’obiettivo di produrre una trasformazione fino all’annientamento del soggetto.

Così, se in Italia i minori stranieri godono, fra gli altri, del diritto all’istruzione, all’assistenza sanitaria, al collocamento in un luogo sicuro, alla tutela quando i genitori non sono nelle condizioni di esercitare la potestà, come nel caso dei Minori non accompagnati, dall’altro le loro testimonianze sono oggetto di valutazione, di indagini, di giudizi circa la loro attendibilità e il loro operato nel periodo intercorso dal loro arrivo in Italia e il tempo dell’audizione dinanzi la Commissione Territoriale. Cosicché, se da un lato vige il divieto assoluto di respingimento alla frontiera dei minori stranieri non accompagnati, respingimento che non può essere disposto in alcun caso, dall’altro è prevista la loro espulsione, se sussistono motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato, valutazione demandata ai Tribunali per i Minorenni che deve essere «tempestiva e comunque nel termine di 30 giorni». Ma cosa può diventare decisivo per far sì che un minore “meriti” un decreto di espulsione? Basterebbe, per esempio che un minore inserito in un Centro di Accoglienza incorra in uno di quei periodici momenti di assoluta incomprensione tra le sue domande di attenzione e cura e la risposta fornita dagli operatori del Centro. Spesso non formati professionalmente, ma animati solo dalla buona volontà di fronte agli effetti devastanti che l’orrore del trauma vissuto comporta in chi ne ha fatto esperienza, gli operatori si trovano spesso a far ricorso all’aiuto delle forze dell’ordine per “sedare” e “contenere” quelle che risultano essere le rimostranze di chi si confronta con l’ennesima sordità dell’altro alle loro richieste e con risposte incomprensibili per chi ha vissuto l’arbitrio del godimento mortifero dei loro torturatori, per chi ha visto morire i loro vicini e, della propria morte, ne ha fatto esperienza diretta durante le traversate. Cosicché, una domanda di aiuto, se non di amore, inascoltata, diventa una modalità per far passare coloro che sono vittime della violenza dell’Altro in colpevoli per aver trasgredito e messo in questione le regole di chi fa sì che il peso della vergogna per quanto accade sia appannaggio di pochi e l’osceno stia a rappresentare chi si vanta di ridurre, con le proprie azioni, il numero dei migranti in Italia.

[1] Minori Stranieri Non Accompagnati.
[2] Vocabolario della Lingua Italiana Treccani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1991

Un Lacaniano in Tribunale: Vademecum per l’accertamento dell’identità di genere

Gelindo Castellarin membro AME SLP e AMP – Udine – ottobre 2021

 

Premessa

È indubbio, che la Psicoanalisi dell’Orientamento lacaniano, cogliendo sino in fondo la questione implicita nel discorso che contorna la soggettività trans, si sia prodigata in un serrato confronto dialettico con la Weltanschauung LGBTQA+ (Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender, Queer, Questioning, Asexual, Ally + Other Identities), riconoscendo che le questioni poste dai transgender attraversassero i fondamenti stessi della teoria psicoanalitica.

Del resto, Sigmund Freud e Jaques Lacan, hanno contribuito in maniera determinante a disvelare il desiderio transessuale, dandone una solida cittadinanza simbolica, se non altro per aver scoperto e riconosciuto, nell’inconscio, il bambino “perverso polimorfo” di ognuno, il suo godimento, la sua espressività e la centralità del suo riconoscimento tramite la parola.

In un precedente lavoro del 2018, intitolato Sesso maschile, genere femminile. La questione transessuale in Tribunale e l’opzione “X” per il terzo genere, apparso su Appunti n.137, ho affrontato il tema trans a partire dalla mia funzione di C.T.U. (Consulente Tecnico d’Ufficio) analizzando le questioni giuridiche, oggi centrali nel dibattito attuale sul tema. In queste brevi note, desidero lavorare un possibile vademecum per un Consulente del Giudice, chiamato a rispondere sulla identità di genere di un soggetto in transizione e cioè La docilità nell’ascolto del transgender.

La docilità nell’ascolto del transgender

Jacques-Alain Miller pubblica un pamphlet intitolato “Docile al trans1 che dietro un’aria scherzosa e semiseria, risponde per le rime a Paul B. Preciado (FtoM), intervenuto polemicamente nel 2019, alle 49° Giornate dell’École de la Cause freudienne, contro una Psicoanalisi, a suo dire, ancella di un patriarcato bianco, normativo e razzista.

JAM, sornione ma tagliente risponde a Preciado porgendo l’altra guancia, con la sicurezza di seguire le orme di Freud che ha accolto, senza pregiudizi, le isteriche di fine Ottocento: «Lacan elogia Freud- scrive Miller- che seppe mostrarsi «docile all’isterica». Vorrei potermi congratulare anche io con il praticante di oggi per essersi saputo fare «docile al trans». È davvero così?»2.

JAM risponde anche a suo nipote, la cui interlocuzione è inscritta nella logica del tempo:

Il nipote: «Non devi dire, Jacques-Alain, che lui è diventato ragazza. È offensivo per lui. No, lui è una ragazza. – E quando il tuo migliore amico così ben pettinato ti dice di essere una ragazza, tu che cosa fai? – Accolgo quello che mi dice con rispetto e gentilezza». Fine delle danze. «No pasaran? ». Essi ed esse han pasado, sono decisamente passati/e. «E pur si muove! » (la frase è apocrifa), il che vuol dire: a dispetto di tutte le inquisizioni, di tutte le dimostrazioni, il gender si diffonde! È un caos indescrivibile? Non è un problema. Meno è chiaro e meglio funziona, per l’appunto. E travolge tutto al suo passaggio.

Come possiamo articolare questa docilità al trans? Ovviamente, come lacaniani, considerando i trans come soggetti, cioè come soggetti che ci narrano una transizione di discorsi. Se, con Lacan, Un significante è ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante. [Scritti, p. 819,] e Il soggetto è ciò che il significante rappresenta per un altro significante [Scritti, p. 835,] allora, devi riconoscere la soggettività trans nelle nuvole discorsive costituite dai domini tridimensionali, borromeici, RSI:

a loro volta Immersi nello spazio semantico, costruito dai significanti che si intrecciano nei tre assi:

  • X= Asse della natura, cioè tutti i riferimenti significanti riferiti alle determinazioni cromosomiche di ciascuno, cioè al Maschile=XY, al femminile =XX, e o all’intersex=es. XXX, XYY, XXY, con i vari fenotipi, corredati da accertamenti medici, trattamenti ormonali, malattie, ecc. In RSI, il Reale
  • Y= Asse della cultura, cioè tutti le narrazione del sé riferite ai significanti Uomo, Donna o gender variant con i vari stilemi: Maschi e femmina si nasce, Uomini e donne si diventa, Da sempre sono femmina(o maschio). In RSI, il Simbolico.
  • Z=Asse dell’orientamento sessuale cioè tutti i riferimenti significanti relativi al godimento sessuale (eterosessuale, omosessuale, bisessuale, ecc.) ciò che in un sentire, spesso indecifrabile orienta l’orgasmo. In RSI l’Immaginario

Se alle coordinate x,y,z aggiungi la quarta dimensione, cioè il tempo(T) ti trovi nella transizione, cioè nel passaggio dallo stato T0 allo stato Tn: per il transgender la transizione sarà(MtF) o (FtM) e per il cisgender la transizione sarà m-> M o f -> F. Per il soggetto intersex sarà variabile.

Così, a partire dalla docilità dell’ascolto ti accorgerai che ogni soggetto in transizione, occupa, nel discorso (nel suo dire), un punto singolare iscritto nelle infinite posizioni assumibili nello spazio tridimensionale3. Così il sinthomo transgender sarà accolto dal tuo ascolto a partire dalla posizione della docilità milleriana, da intendersi, come: accoglienza integrale, ascolto significante e interpretazione clinica della struttura.

Se poi sospendi il giudizio, sino al termine dei 90 giorni concessi dal Giudice per rispondere al quesito4 che ti ha consegnato, ti accorgerai che il soggetto contorna stilemi costanti riferiti a:

  • Agalmatizzazione: il soggetto si rivolge all’Altro, Altro genitore o Altro sociale sorretto dalla convinzione seduttiva di essere per lui un oggetto a. Lo noterai nello stile della Real Life Experience, nelle modulazioni delle prosodie, negli sguardi e nelle aggettivazioni del sentiment.
  • Idealizzazione: il soggetto trans è oggi iscritto e narrato, sotto le insegne dell’idealizzazione I(A) dell’eroe moderno. Ti racconterà, con vera sofferenza, tutti gli atti di eroismo che ha dovuto fare per contrastare segregazioni e minorazioni reali.
  • Identificazione narcisistica i(a): Il soggetto trans si rispecchia nella sua immagine, per trovare una consistenza sfuggevole. La visibilità, l’apparenza, la sembianza sono al servizio di una difesa per proteggersi dal rischio del vuoto della mancanza.
  • Erotizzazione: il soggetto trans ti parla dei suoi amori e fa dell’eros una consistenza spesso delusiva, anche perché il bisturi, taglia e toglie godimento.
  • Sacralizzazione: il soggetto trans aspira al riconoscimento sacrale, tramite la realizzazione di una famiglia ideale etero sulla base di una sembianza.

 

[1] Questo articolo esce dapprima ne La Règle du jeu. Apre, inoltre, un numero di Lacan Quotidien di oltre 100 pagine, intitolato: 2021 Anno Trans, disponibile sul sito: www.lacanquotidien.fr. L’articolo è stato anche ripreso da Rete Lacan n. 29 ed è reperibile su: https://www.slp-cf.it/rete-lacan-n-29-edizione-straordinari/
[2] Ibidem.
[3] Per il concetto di spazio vedi:
https://it.wikipedia.org/wiki/Spazio_(fisica)#Gauss_e_Poincar%C3%A9
[4] Esempio di quesito: “Esaminati gli atti di causa e la documentazione prodotta, assunte le informazioni che riterranno necessarie dai sanitari che hanno avuto in cura il periziando ed esaminate le cartelle cliniche esistenti presso strutture pubbliche e/o private con facoltà di estrarre copia di quanto ritenuto utile, visitato il ricorrente,  a) Dicano i consulenti quale sia l’identità psicosessuale della parte perizianda, accertando altresì la serietà delle sue determinazioni e se risulti effettivamente necessario, ai fini della tutela della salute e del benessere psicofisico della stessa, un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamenti medico chirurgici nei termini richiesti in atto introduttivo; b). dicano i consulenti se il percorso fino ad oggi effettuato abbia carattere di irreversibilità, serietà ed univocità tali da rendere certa la compiutezza dell’approdo finale a prescindere da detti interventi medico chirurgici”.

Ciò che manca – Rapporto tra la dis-abilità (evento traumatico non assimilabile) e la genitorialità

Simona Galimi – partecipante SLP – Roma – ottobre 2021

 La vita e l’Uno del corpo

«La vita non si riduce al corpo, alla sua bella unità evidente. C’è un’evidenza del corpo individuale, del corpo in quanto Uno, ed è un’evidenza di ordine immaginario»1.

Qualche anno fa, presso l’ASS della città in cui vivevo, insieme a due colleghe ho condiviso un progetto di supporto psicologico rivolto a familiari di disabili, progetto formulato e avviato grazie ai servizi per l’Handicap. Lì dove è stato possibile creare una collaborazione tra psicoanalisi e istituzione ospedaliera si è potuto vedere come poter mettere in campo una duplice operazione: contenere l’angoscia genitoriale e restituire all’istituzione sanitaria un valore simbolico. Dal momento che il setting in ospedale non coincide con il setting classico, andava strutturato un contributo al lavoro con soggetti disabili e le loro famiglie, lì dove ad accogliere la domanda dell’Altro genitoriale diviso e sofferente a causa del sintomo o della menomazione del figlio, era l’Azienda Sanitaria.

L’evento della nascita di un bambino disabile – definizione di privazione e in medicina di disfunzionalità – è traumatico e ingenera sentimenti di inadeguatezza e colpevolezza, dolore e rabbia, nei genitori. Tale evento coinvolge l’individuo, la famiglia e la rete sociale. Il tempo dedicato alle cure mira a risolvere o a “coprire” una mancanza, ma il campo su cui opera l’analista è quello dove il bambino deve trovare il suo posto all’interno di un discorso. Non è rivolgendosi unicamente alla scienza o ai test standardizzati che le famiglie si sentono rassicurate. Lacan evidenzia come l’idea di un oggetto armonico che per sua natura realizzi la relazione soggetto-oggetto, è perfettamente contraddetta dall’esperienza2.

Quindi i punti problematici da lavorare, nella mia esperienza, erano:

  • Mancanza di accettazione della menomazione del figlio/a
  • Mancanza di risorse territoriali
  • Difficoltà nel chiedere e/o ricevere aiuto
  • Messa in scacco del rapporto “educativo” da comportamenti disadattivi del figlio/a
  • Giudizio sociale, sentimenti di colpa e vergogna, incomprensione della sfera emotivo-relazionale e sessuale del figlio, che non rientra nei parametri “ideali”.

Solo dopo aver rassicurato i genitori e implicando il bambino nel transfert come soggetto, piuttosto che come oggetto, poteva aprirsi uno spazio per la domanda di cura. L’aprirsi di uno spazio di parola per il soggetto, genitore o figlio, aldilà della disabilità, era utile a cogliere attraverso il loro discorso, il significato che aveva assunto la disabilità, anche se l’evento traumatico diventa difficilmente assimilabile. Secondo la distinzione che ne fa Freud, il trauma è il primo incontro del soggetto con la realtà esterna, inassimilabile. L’evento traumatico è un accadimento che riattiva una traccia mnestica, si lega associativamente al trauma e ne desta la portata patogena. Il bambino già prima che venga al mondo è pensato in un polo di attributi che lo rappresentano e ciò che insegna Lacan in un passaggio de La direzione della cura3 è che è nella domanda del bambino che si produce l’identificazione primaria. Domanda che per il bambino ha a che fare con la presunta onnipotenza della risposta materna. È la risposta della madre che definisce qual è il contenuto dell’appello. Nei casi in cui è presente un fattore organico, il bambino non deve far fronte soltanto a una difficoltà innata, ma anche al modo in cui la madre utilizza questo difetto in modo fantasmatico, che finisce con l’essere comune a entrambi. Ciò che è cruciale nella relazione di un figlio con il genitore, quindi, è il posto occupato del figlio ideale e quando il corpo del figlio viene pensato come ideale, viene messa in evidenza una logica perversa (relazione narcisistica, in cui il figlio non viene accettato nella propria differenza o la tendenza all’instaurarsi di una relazione duale, dove madre e figlio costituiscono un corpo unico, così da non aver bisogno di relazionarsi all’altro, rapportandosi alla sua mancanza). Inoltre, la relazione che il figlio avrà con la propria immagine, diversa dall’ideale, rischia di diventare scarto, mortificazione, depressione. L’amore per l’Altro materno per Lacan risponde a una definizione molto precisa: è il desiderio del suo (cioè della madre) desiderio. Il bambino cerca un recupero della sua perdita d’essere, prodottosi dall’entrata in campo nel simbolico, facendosi qualcosa per la madre, pur se questo rimane enigmatico. Se al livello del corpo una mancanza strutturale scava una perdita e con essa la nostalgia di un mondo perduto, la disabilità la richiama costantemente. C’è un tabù che riguarda l’invalidità, come se fosse qualcosa da nascondere, ma che dura tutta la vita, nell’impossibilità dei genitori di comprendere il Reale in gioco. Segue il corpo istituzionale che implica nuovi fini (ricerca di un altro ideale) sollevando in alcuni genitori resistenze che provocano una sorta di incistamento e introduce condotte di rivendicazione o dimissione. È necessario dunque introdurre una dimensione terza, uno spazio di parola in cui poter fare emergere la posizione soggettiva dei rapporti con il reale, lo sviluppo del transfert e l’interpretazione.

La psicoanalisi applicata alla terapeutica istituzionale deve poter annodare la formazione dell’operatore con la pratica in istituzione e la posizione dell’operatore analiticamente orientato deve potersi fare partner del paziente come soggetto (che siano genitori o figli) tenendo conto del discorso che domina l’istituzione, senza contrapporsi ma nemmeno adattandosi, cercando di fare esistere uno scarto discorsivo che permetta di far manifestare il soggetto nella sua singolarità. Favorire l’accettazione del sintomo e della diversità e lo sviluppo di un’adeguata relazione affettiva è stato di aiuto per correggere distorsioni nella dinamica complessiva del nucleo familiare e potenzialmente fare posto a un lavoro analitico dove poter snidare gli elementi fantasmatici che facevano da ostacolo, con il rischio, se ciò non accade, che si profilino formazioni reattive sclerotizzate, che chiudono la porta a ogni possibilità di interrogazione.

[1] J.-A. Miller, Biologia Lacaniana ed eventi di corpo, “La Psicoanalisi”, 28, Roma, Astrolabio, 2000, p.16
[2] J. Lacan, Il Seminario, Libro IV, La relazione d’oggetto, Le tre forme della mancanza d’oggetto, p.21
[3] J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere, Scritti II, Torino, Einaudi, 2002, p.613.

«Il wokismo ha il rigore ideologico di una nuova religione»

Inna Shevchenko intervista Asrna Nomani1

L’ideologia woke estende la sua influenza sul sistema educativo pubblico negli Stati Uniti. Sempre di più i genitori insorgono contro le autorità educative ed i nuovi programmi scolastici, che insegnano ai ragazzi come diventare dei militanti politici e a sottolineare le differenze razziali.

Asrna Nomani è una donna di origine indiana, arrivata negli Stati Uniti quando era bambina. Si è fatta conoscere come giornalista e militante per la riforma dell’islam. Oggi vice-presidente di una associazione di genitori, “Parents Defending Education”, è all’apice della lotta contro ciò che si chiama le ideologie “Woke”.

Inna Shevchenko: Con la sua organizzazione, Parents Defending Education, lei fa parte delle voci, sempre più numerose, che denunciano il modo in cui le scuole pubbliche americane, nel loro insegnamento, mettono l’accento sulle questioni razziali, di genere e di attivismo e come i programmi ne sono influenzati. Cosa sta succedendo esattamente?

Asrna Nomani: I nuovi ideologi “woke”, con le loro teorie della divisione, assediano attivamente i nostri sistemi scolastici e i nostri bambini. Abbiamo registrato una certa incidenza riportata da alcuni genitori sul modo in cui queste ideologie tossiche si esprimono nelle classi. Notiamo alcune tendenze. Anzitutto, le amministrazioni scolastiche ingaggiano dei “consulenti” che apportano questa propaganda politica nelle scuole. Pensano che questi attivisti abbiano una voce legittimata a modellare l’educazione dato che utilizzano delle parole alla moda come “diversità”, “equità” e “inclusione”, “educazione culturalmente responsabile”, ecc. Gli insegnanti e i responsabili scolastici sono obbligati a seguire delle “formazioni di crescita professionale” destinate a “rieducare”. Ancora più importante è che cambiano letteralmente i programmi scolastici, adattandoli a queste nuove narrazioni politiche, in particolare, integrando la tanto dibattuta “teoria critica della razza” (Critical Race Theory). Ad esempio, questi programmi denigrano Martin Luther King perché non era così radicale nella lotta contro il razzismo. Allo stesso modo contengono spesso una retorica antisemita. Ad esempio, nella scuola di mio figlio hanno cambiato alcune politiche fondamentali, come quelle concernenti l’imparzialità degli insegnanti. Ciò significa che gli insegnanti possono prendere posizione sulle controverse questioni contemporanee. Così, sul tema dell’attentato a Charlie Hebdo, i prof., invece di porre la questione della libertà d’espressione e di permettere il dibattito, potevano suggerire che i giornalisti e i vignettisti erano stati assassinati perché hanno provocato la violenza con le loro vignette, considerate come offensive, razziste e islamofobiche. Ci siamo sempre affidati alle nostre scuole pubbliche, ma ciò che fanno ora è tradire questa fiducia e prendere i nostri bambini in ostaggio per indottrinarli.

I.S.: Si possono ritrovare le radici di queste nuove tendenze nel sistema educativo pubblico?

A.N.: La storia dei recenti sviluppi accademici è importante. Negli anni ottanta, Derrick Bell ha sviluppato l’idea della teoria critica della razza. Ironicamente, l’ha fatto in un luogo molto privilegiato, ad Harward. Ha poi creato una piccola rete di universitari, di cui fa parte, per esempio, Kimberlé Crenshaw (autore conosciuto per la sua teoria della intersezionalità). Nel corso degli anni, questi universitari hanno spinto le loro teorie e la loro filosofia semplicistica secondo le quali tutto nella società è questione di razza e di colore della pelle. Poi, all’inizio del 2000, sempre grazie alla loro rete universitaria, hanno iniziato a creare una generazione intera di educatori impregnati da queste idee. Questi sono diventati più rumorosi e hanno guadagnato potere dopo l’uccisione di George Floyd. Questo dramma è stata una tempesta perfetta per questi attivisti. Potevano fare pressione sulle istituzioni pubbliche e penetrare il sistema scolastico con la loro ideologia. L’estate scorsa, tutto ciò ha acquisito una portata senza precedenti. Hanno iniziato a umiliare pubblicamente gli educatori e a riprendere la cancel culture nelle scuole e nell’università. Questi pseudo consulenti si sono costituiti in vere e proprie imprese: ottenevano dei contratti e dei finanziamenti enormi per il loro lavoro. Organizzavano dei corsi di formazione nelle scuole, che ricordavano le sedute di terapie di gruppo, in cui si domandava agli educatori bianchi di confessare il loro retaggio razzista, e dove si insiste sul traumatismo dei Neri. Attraverso questi corsi, arrivavano a modificare il programma e le politiche scolastiche. Nella scuola dove studia mio figlio, una scuola rivolta alle scienze e alla tecnologia, volevano sopprimere il test d’ammissione e stabilire al suo posto un sistema di estrazione a sorte per selezionare gli studenti in funzione delle loro origini, invece che per le loro conoscenze e competenze scientifiche.

I.S.: Ci può dare un esempio di quello che implica concretamente l’insegnamento della teoria critica della razza nelle scuole?

A.N.: Si dice ai bambini che sono ripartiti in “gruppi d’affinità di razza”. Si domanda ai bambini di collocarsi sulla “matrice d’oppressione”. Questo implica che ogni bambino deve barrare una casella in quanto bianco, nero o asiatico, in quanto transgender o etero, eccetera. In questo modo, si dovrebbe scoprire se appartengono agli oppressi o agli oppressori. Un altro esempio di questo insegnamento è che il razzismo sistematico spiega tutto: la riuscita come il fallimento scolastico. In sintesi, l’insegnamento della teoria critica della razza consiste a giudicare ciascuno in funzione del colore della sua pelle. Ed è per questo che molti genitori neri si oppongono alla presenza della teoria nelle scuole, perché non vogliono che i loro bambini apprendano che sono delle vittime per definizione.

E chiunque abbia idee progressiste dovrebbe opporre resistenza, perché ciò crea delle nuove realtà per le minoranze e delle nuove divisioni tra la gente. Sono un’immigrata e tutti quelli che conosco e che vivono negli Stati Uniti sono originari del Libano, della Bosnia, del Pakistan… Riconosciamo da lontano questo settarismo e i danni che provoca. Il “wokismo” è sulla strada per diventare una nuova religione, ne ha la rigidità ideologica e una rete molto sviluppata. Spero che la nostra esperienza metterà in allarme l’opinione pubblica in Francia

I.S.: Non trova ironico che come immigrata, donna mussulmana con un forte passato di lotta per le minoranze negli Stati Uniti, ora debba non solo combattere il suprematismo bianco, ma anche opporre resistenza alle idee avanzate dall’estrema sinistra, le idee etichettate come “progressiste”?

A.N.: Vedo la tragica ironia di questa battaglia: le persone che sono supposte difendere la libertà d’espressione e i diritti delle minoranze sono di fatto dei dittatori di un nuovo sistema che impone il razzismo ai nostri bambini, alla nostra società e alle nostre scuole. Ma per uscirne, dobbiamo avere gli occhi aperti sui nostri valori, al fine di non farci intrappolare. Spesso, pensiamo che tutto ciò che è fatto in nome della causa antirazzista sia obbligatoriamente buono. O che una persona uscita da una minoranza raziale non difenda che dei valori progressisti. Il pensiero “woke” confonde le tracce e ci lancia una sfida. Dobbiamo continuare ad andare al di là delle nostre idee preconcette. Questo esige un senso dell’etica veramente chiaro. In quanto liberale, in senso politico, ritengo che nessuno dovrebbe essere giudicato per il colore della sua pelle. Mi è dunque impossibile seguire questa nuova narrazione “woke”, anche se è presentata come antirazzista. Si tratta qui di difendere la nostra integrità e di essere implacabili nella difesa dei nostri valori.

Traduzione di Omar Battisti

[1] Intervista pubblicata sul sito di Charlie Hebdo il 14/05/2021 e citata dall’articolo di M.H. Brousse pubblicato in Rete Lacan 34. https://charliehebdo.fr/2021/05/international/asra-nomani-wokisme-rigueur-ideologique-nouvelle-religion/

RUBRICA La psicoanalisi tra le righe

a cura di Fabio Galimberti – membro SLP e AMP – Milano – novembre 2021

 

PSICOANALISI NERA. Senza andare troppo per il sottile ecco le sottili distinzioni cromatiche di Pierre Lemaitre, anzi letterarie, tra giallo e noir: “Sono le stesse che esistono tra medicina e psicoanalisi. Il medico vuole ripristinare lo stato di salute che precedeva la malattia, mentre lo psicoanalista cerca di portare il paziente a un nuovo stato, perché era quello di prima a farlo stare male. Allora: il poliziesco cerca il colpevole per ritrovare la pace. Il noir, invece, porta il lettore a una nuova consapevolezza che modifica la sua visione del mondo”. Cherchez la… [Annachiara Sacchi, La Lettura, 17 ottobre 2021].

TOTEM E TATTOO. Non c’è niente di più profondo della superficie. Così affermava Lacan e prima di lui Gide, ma chissà quanti altri ancora hanno guardato alla pelle della realtà con questo taglio fenomenologico. Anche Nicolas Viola, a quanto pare, che non è però uno scrittore e nemmeno uno psichiatra, fino ad ora perlomeno. È un calciatore e precisamente il nuovo acquisto del Bologna, che tra i tanti tatuaggi “ne ha uno dedicato al padre della psicoanalisi”. Quando dici l’incidenza dei Nomi-del-Padre. [Alessandro Mossini, Corriere di Bologna, 20 ottobre 2021].

LIBRIDO. Non è un refuso, è un sostantivo derivato dall’aggettivo inventato da Vanni Scheiwiller, che si autodefiniva “libridinoso”. Ce ne racconta con suadente e colta simpatia Guido Vitiello nel suo Il lettore sul lettino, proponendosi come estensore del “primo rapporto Kinsey sulle perversioni inconfessate del lettore”. Intervistato, paragona l’accostamento dei testi in una libreria alle libere associazioni: “più sembrano casuali, più ci rivelano qualcosa del proprietario della libreria e del suo paesaggio mentale, magari qualcosa che neppure lui sospettava”. Attenzione a come leggete. [Luca Mastrantonio, Sette, 15 ottobre 2021].

HABEMUS PAPAM. Alessandro Haber è un “talento vero”, come scrive Antonio Gnoli che lo intervista e gli domanda perché non sia mai stato in psicoanalisi. “Perché non voglio sapere”, risponde l’attore, “e non voglio che un estraneo magari mi obblighi a rinunciare a quello che sono diventato”. Mi obblighi… che idea superegoica, viene da pensare. Poi Gnoli lo invita a parlare delle sue origini e un sorriso di confermata simpatia ci increspa le labbra quando racconta: “Mio padre, Sigismondo, era un ebreo rumeno”… [Robinson, 6 novembre 2021].