«Il linguaggio non è informazione, ma risonanza, e mette in valore la materia che lega suono e senso. Rivela quello che Lacan chiamava moterialismo, che al suo centro racchiude un vuoto».
Éric Laurent, L’interpretazione: dalla verità all’evento, inedito.
Responsabile: Laura Storti – retelacan@gmail.com
Redazione: Eva Bocchiola, Sergio Caretto, Adele Succetti, Sebastiano Vinci, Giuliana Zani
Grafica a cura di: Matteo De Lorenzo
Per il sito: Valentina Lucia La Rosa
Sommario
Rete Lacan n°40 – 10 febbraio 2022
- L’interpretazione: dalla verità all’evento
Éric Laurent - L’inconscio, è la politica
Philippe La Sagna - Beauty, storia di una sposa bambina
Noemi Galleani
in copertina:
Marc Didou, ECO,
scultura, 2005.
Photo by: Luca Gerbino, Torino, 2012
https://it.wikipedia.org/wiki/Eco_(Marc_Didou)#/media/File:Eco_(Luca_Gerbino),_Turin_(Torino).jpg
L’interpretazione: dalla verità all’evento
Membro AME ECF e AMP, Parigi
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Appena si evoca l’interpretazione, sorge un malinteso. Il binario tra il testo e la sua interpretazione ci porta fuori strada. Si cade subito nell’illusione che esista il linguaggio dell’inconscio e che questo richieda un metalinguaggio: l’interpretazione. Lacan non ha smesso di ribadire che l’esperienza della psicoanalisi gli permetteva non solo di affermare che non esisteva metalinguaggio, ma che affermarlo era l’unica possibilità di orientarsi correttamente in questa esperienza. Ne derivano due proposizioni fondamentali. Il desiderio non è l’interpretazione metalinguistica di un’indistinta pulsione pregressa. Il desiderio è la sua interpretazione. Entrambe le cose stanno allo stesso livello. A questo bisogna aggiungere una seconda proposizione: «gli psicoanalisti fanno parte del concetto di inconscio, poiché ne costituiscono la destinazione» [1]. Lo psicoanalista può cogliere nel segno solo se si allinea all’interpretazione effettuata dall’inconscio, già strutturato come un linguaggio. Tuttavia, non dobbiamo ridurre questo linguaggio alla concezione meccanica che può averne la linguistica. Bisogna aggiungervi la topologia della poetica. La funzione poetica rivela che il linguaggio non è informazione, ma risonanza, e mette in valore la materia che lega suono e senso. Rivela quello che Lacan chiamava moterialismo, che al suo centro racchiude un vuoto.
Il vuoto e il soggetto
I Seminari si aprono sulla questione dell’interpretazione come pratica che porta alla luce il vuoto centrale del linguaggio. Come indicano le prime righe del primo Seminario: «Il maestro interrompe il silenzio in un modo qualsiasi, con un sarcasmo, un pestar di piedi. Così procede nella ricerca del senso un maestro buddista, secondo la tecnica zen. Tocca agli allievi cercare la risposta alle proprie domande. Il maestro non insegna ex cathedra una scienza bell’e fatta; apporta la risposta quando gli allievi sono sul punto di trovarla» [2].
Non bisogna sbagliarsi: queste righe non riguardano solo la forma che deve assumere l’insegnamento in generale, ma mirano alla pratica dell’interpretazione analitica più profondamente ancorata all’esperienza della cura. Lo vedremo più avanti. Ammettiamo questo legame tra l’interpretazione e il «modo qualsiasi» [n’importe quoi] in senso lato, l’eterogeneo. Ci sarà allora più facile seguire lo sviluppo della riflessione di Lacan sull’interpretazione dal suo primo insegnamento fino a quando, nel suo ultimo insegnamento, fu portato a “passare al rovescio” dell’interpretazione, secondo la problematica portata alla luce da Jacques-Alain Miller. All’orizzonte più radicale di questa nuova prospettiva, Lacan sarà portato a fondare la possibilità stessa dell’interpretazione su una nuova dit-mansion, miscela eterogenea di significante e lettera. È questa nuova dimensione (apporto specifico della psicoanalisi che aggiunge alla lingua funzioni inosservate dalla linguistica, anche quella di Jacobson, così sensibile alla funzione poetica) che lega l’interpretazione alla definizione del sintomo come evento di corpo. L’interpretazione diventa così evento del dire, che può elevarsi alla dignità del sintomo o, secondo l’espressione criptica di Lacan, spegnerlo. Questo è il percorso che verrà intrapreso in questo articolo. Ci interrogheremo innanzitutto sull’eterogeneità dell’interpretazione. Poi esporremo il passaggio al rovescio dell’interpretazione. Successivamente considereremo l’interpretazione come giaculazione, tra orale e scritto. E concluderemo su alcuni aspetti della pratica della nuova dit-mansioncosì rivelata, e come essa ci permette di muoverci tra i diversi livelli di interpretazione che si mobilitano nel corso dell’esperienza psicoanalitica stessa.
L’interpretazione come eterogenea
Quando Lacan isola il «modo qualsiasi» del maestro zen [3], non parla della tecnica zen in generale, ma in particolare di quella di Linji, uno dei fondatori di una scuola la cui influenza è stata centrale nella trasmissione del Buddhismo Chan in Giappone. Quest’autore era caro a colui che Lacan chiamava il suo «buon maestro» [4], Paul Demiéville, che nel 1947 aveva pubblicato uno studio fondamentale, «lo specchio spirituale», che Lacan prenderà come riferimento. Il sinologo, lettore di sanscrito e specialista del buddismo, è quello che stabilisce la differenza tra buddismo indiano e quello cinese, contrapponendo il gradualismo indiano al subitismo cinese [5].
L’accento posto dal Chan di Linji sulla produzione improvvisa della vacuità per mezzo della rottura è l’esempio stesso di questo subitismo. In questo senso, i riferimenti lacaniani al lampo sono debitori tanto al lampo della vacuità di Linji quanto al lampo eraclitiano di Heidegger. Jacques-Alain Miller ha insistito su questo versante dell’insegnamento di Lacan, desiderando «lasciarsi così condurre dalla lettera di Freud fino all’illuminazione che essa rende necessaria, senza darle appuntamento in anticipo, non ritirarsi davanti al residuo, ritrovato alla fine, del suo inizio da enigma, e anche non ritenersi dispensati, al termine di questo procedere, dallo stupore con cui vi si è entrati» [6].
Siamo autorizzati a mettere in relazione l’intervento del maestro Zen per liberare il praticante dalle sue abitudini mentali con l’interpretazione analitica portata dal detto di Lacan, secondo il quale l’interpretazione deve mirare all’oggetto, e specialmente sotto le sembianze del vuoto. «Tutti sanno che un esercizio Zen ha a che fare, anche se non si sa bene cosa significhi, con la realizzazione soggettiva di un vuoto» [7].
L’enfasi sul lampo sottolinea che il nostro rapporto con la temporalità è molto più profondo della descrizione del rapporto con il tempo, sia esso il numero di sedute o la loro durata.Insieme a questa versione Zen del lampo, l’altra versione più sviluppata è quella del lampo di Heidegger basata sull’aforisma di Eraclito [8] : «Il lampo governa tutti» – questa è una delle traduzioni di questo aforisma. Segnaliamo almeno questo: il lampo non fa parte del “tutti”. Il lampo non è un essere [étant]. Non è annoverato tra gli esseri, né vi si aggiunge. È la luce che permette di distinguerlo. Nell’orizzonte dell’analisi, è ciò che permette di discernere ogni cosa nella sua singolarità.
L’interpretazione analitica tiene conto di questa eterogeneità non solo concentrandosi sulla parola o sull’enunciato. Al di là della sua varietà di supporti, essa deve essere guidata dalla ricerca di un effetto di verità concepito come rottura. Il suo «modo qualsiasi» non equivale dunque a qualunque intervento dello psicoanalista, ma deve anche voler produrre l’effetto di rottura di una verità – che non è né semplice adequatio, né produzione qualunque di senso – e tenere conto delle aporie di questo scopo.
Per questo, negli anni ‘50, Lacan si interessa al contributo dello psicoanalista inglese eterodosso Edward Glover, degli anni ’30, riferendosi alle sue osservazioni sull’effetto dell’interpretazione inesatta: «Un articolo di cui vi consiglio la lettura a questo proposito è quello di Glover intitolato Therapeutic Effects of the Inexact Intepretation… La questione è molto interessante e conduce Glover a redigere una descrizione generale di tutte le posizioni prese da chi si trova in posizione di domanda a proposito di un qualsiasi disturbo. Così facendo, generalizza, estende la nozione di interpretazione ad ogni posizione articolata presa da colui che viene consultato e redige una scala delle diverse posizioni del medico rispetto al malato. Vi è qui un’anticipazione della relazione medico-malato» [9]. Glover è sensibile alle aporie inerenti all’interpretazione ma non tiene conto del valore operativo del luogo della verità in quanto tale. Il fluido flogistico in questione è infatti il senso che appare come sfuggente della relazione tra esseri umani spontaneamente senza alcuna base o principio. «Questa importanza del significante nella localizzazione della verità analitica appare in filigrana, quando un autore si attiene alle connessioni dell’esperienza nella definizione delle aporie. Si legga Edward Glover per misurare il prezzo che paga in mancanza di questo termine: quando, nell’articolare le più pertinenti delle vedute, finisce per trovare l’interpretazione ovunque, non potendola fissare da nessuna parte, fin nella banalità della prescrizione medica… Così concepita, l’interpretazione diviene una sorta di flogisto: manifesto in tutto quel che a torto o a ragione si comprende»[10].
A causa della proliferazione del senso, Glover ha avuto l’intuizione di cogliere che la binarietà vero/falso non è adatta alla psicoanalisi: «Quando il Sig. Glover parla di interpretazione «esatta» o «inesatta», non può farlo se non per evitare questa dimensione della verità…è molto difficile parlare d’interpretazione «falsa» … di interpretazione inesatta… a volte, non è per questo fuori luogo…
Perché la verità vuole essere ribelle, e per quanto «inesatta» possa essere, la si è comunque solleticata da qualche parte»[11]. Ma ciò che Lacan evidenzia è che il livello di opposizione tra il vero e il falso, insufficiente a qualificare l’esperienza analitica, è il posto in riserva della verità come ciò che può fare buco, fare vuoto nel discorso e che questo posto è occupato dallo psicoanalista che ha autorizzato il discorso «di associazione libera», che Lacan definisce semplicemente come discorso libero sbarazzandosi della storica connotazione di associazione.
«In questo discorso analitico destinato a catturare la verità, è la risposta-interpretazione, interpretativa, che rappresenta la verità, l’interpretazione… come possibile lì… il discorso che abbiamo ordinato come discorso libero ha per sua funzione di fargli posto. Non tende ad altro che a istituire un luogo di riserva affinché questa interpretazione vi si iscriva come luogo riservato alla verità. Questo luogo è quello che occupa l’analista. Vi faccio notare che lo occupa, ma che non è là che il paziente lo mette! Questo è l’interesse della definizione che dò del transfert… Egli è posto nella posizione di soggetto supposto sapere»[12].
L’interpretazione analitica è così presa tra il sapere supposto su ciò che è il misterioso legame tra inconscio e godimento e la vacuità effettiva che si tratta di produrre. «In altre parole, si trova tra due sedie, tra la falsa posizione di essere il soggetto supposto sapere(che sa bene di non essere), e quella di dover rettificare gli effetti di questa supposizione da parte del soggetto, e questo in nome della verità. Ecco perché il transfert è fonte di ciò che si chiama resistenza»[13].
All’interpretazione che produce un senso che può essere compreso, senza alcun limite, Lacan oppone l’effetto di verità dell’interpretazione in quanto rimanda a un vuoto fondamentale, a un’assenza primaria. L’interpretazione trova così il suo fondamento come ripresa dell’inserimento nel significante di ciò che egli chiama, in modo notevole, la vita. «La significazione non emana dalla vita più di quanto nella combustione il flogisto non sprigioni dai corpi. Bisognerebbe parlarne piuttosto come della combinazione della vita con l’atomo O del segno [Lacan precisa in nota: O deve essere letto zero], del segno, anzitutto in quanto connota la presenza o l’assenza, apportando essenzialmente la e che li lega, poiché, connotando la presenza o l’assenza, istituisce la presenza su fondo d’assenza, così come costituisce l’assenza nella presenza»[14]. E Lacan dà la figura di questo momento inaugurale della congiunzione, del posto della posizione Zero del soggetto incluso nel significante con la vita, nel gioco del Fort-Da: «Punto di inseminazione di un ordine simbolico che preesiste al soggetto infantile, e secondo il quale gli toccherà strutturarsi»[15].
Lacan conclude il suo sviluppo sul fatto che l’eterogeneità dell’interpretazione non la lascia per questo senza regole. Non è tutto e qualsiasi cosa. È un modo qualsiasi che deve mirare al vuoto dell’assenza primaria dell’oggetto perduto. È accompagnato da un segno particolare, un segno prelevato dalla vita e segna il luogo di un non-oggetto che presto chiamerà oggetto a. «Ci dispenseremo dal dare le regole dell’interpretazione. Non che non possano essere formulate, ma le loro formule presuppongono sviluppi che non possiamo dare per conosciuti»[16]. Gli sviluppi che Lacan lascia da parte nella Direzione della curasono quelli dei rapporti tra l’eterogeneità dell’interpretazione e il suo scopo preciso di vacuità soggettiva, memoriale della traccia di godimento lasciata dall’oggetto iniziale perduto, per l’impossibilità di ripetere l’incontro contingente con il godimento esattamente come è stato. Non può che essere ripetuto con il suo fallimento di incontro mancato. Ecco la versione psicoanalitica del vuoto buddista e della vacuità che si tratta di produrre nell’esperienza.
Dall’interpretazione traduzione all’interpretazione taglio
È nel legame tra l’interpretazione eterogenea e il vuoto inaugurale che si situa il passaggio nell’insegnamento di Lacan tra l’interpretazione che dà senso e il suo rovescio. Jacques-Alain Miller ne ha definito la problematica in un articolo strepitoso che oppone l’interpretazione traduzione all’interpretazione asemantica, che rinvia unicamente all’opacità del godimento. Il posto vuoto non è più «in riserva», ma in primo piano «Non si tratta di sapere se la seduta è lunga o breve, se è silenziosa o parlante. O la seduta costituisce un’unità semantica, dove S2 viene a punteggiare dove c’è un’elaborazione – delirio al servizio del Nome-del-Padre – tante sedute risultano così; oppure la seduta analitica costituisce un’unità a-semantica, che riporta il soggetto all’opacità del proprio godimento, e ciò suppone che venga interrotta prima che si concluda»[17]. La polarità fondamentale non è più tra il senso e la verità come buco, ma tra le due facce del godimento: ciò che è posto vuoto nel discorso e che lo buca, ma che si impone nel suo pieno di opacità.
Questa nuova polarità può essere compresa nel suo pieno sviluppo solo a patto di rompere con le illusioni non più solo dell’intersoggettività ma anche del dialogo. È ciò che Jacques-Alain Miller fa valere nella sua invenzione del concetto dell’apparola riconfigurando i progressi dell’ultimo insegnamento di Lacan. «L’apparola è un monologo. Quello del monologo è un tema che assilla il Lacan degli anni settanta. Si trova questo: l’apparola è soprattutto monologo. Propongo dunque l’apparola come quel concetto che risponde a ciò che viene in luce nel Seminario XX Ancora, quando Lacan interroga in modo retorico: Lalingua serve in primo luogo al dialogo? Niente di meno sicuro»[18].
Se, per lalingua, l’essere utile non è un requisito, è perché essa è legata al godimento: che risponde alla formula che Lacan dà nel Seminario Ancora, – Là dove parla, gode. «Nel contesto, ciò significa che qualcosa gode nel parlare»[19]. Mentre l’interpretazione semantica voleva rilanciare qualcosa, l’interpretazione che si confronta con il godimento mira, al contrario, a un non-rilancio. «Occorre un limite al monologo autistico del godimento. Trovo davvero illuminante dire che l’interpretazione analitica fa limite. L’interpretazione al contrario ha una potenzialità infinita»[20]. La potenzialità infinita del discorso libero pone come unico limite al godimento quello del principio di piacere. Il limite dell’interpretazione è diverso. «Il dire qualsiasi cosa porta sempre al principio del piacere, al Lustprinzip. Vuol dire che là dove ça parle, ça jouit. È il commento di ça. In particolare, dato che si mettono tra parentesi gli interdetti, le inibizioni, i pregiudizi, ecc… – se la cosa va per il suo verso – c’è una soddisfazione della parola»[21]. E Jacques-Alain Miller dà quindi una nuova prospettiva all’interpretazione. Al posto del ricorso al principio del piacere e alle sue possibilità indefinite, si tratta di introdurre la modalità dell’impossibile come limite. «Ciò indica che essa potrebbe essere il posto dell’interpretazione analitica, in quanto interverrebbe in contro tendenza al principio del piacere. A questo proposito, nella linea di ciò che Lacan suggerisce… che l’interpretazione analitica introduce l’impossibile»[22]. Attraverso l’introduzione di questa modalità che rompe con la libera associazione della parola, tramite l’istituzione di un «certo non vuol dire niente»[23], l’interpretazione, che passa per la parola, passa dal lato dello scritto, l’unico capace di farsi carico del buco del senso e dell’impossibile. In «rapporto alla formalizzazione, l’interpretazione… è piuttosto dal lato dello scritto che da non dal lato della parola. In ogni caso, è da farsi in gara con lo scritto, nella misura in cui la formalizzazione suppone lo scritto»[24].
La problematica dell’interpretazione a-semantica introduce una dimensione ibrida tra il significante e la lettera, mentre tutta una parte dell’insegnamento di Lacan li oppone. Essa rende conto del fatto che Lacan arriva ad opporre l’interpretazione e la parola. «L’interpretazione analitica […] ha una portata che va ben oltre la parola. La parola è un oggetto di elaborazione per l’analizzante, ma che ne è degli effetti di ciò che dice l’analista? – perché egli dice. Non è cosa da poco formulare che il transfert vi svolge un ruolo, ma non chiarisce nulla. Si tratterebbe di spiegare in che modo l’interpretazione colpisce l’obiettivo e spiegare che essa non implica necessariamente un’enunciazione»[25].
L’a-semantico e l’era scritto
L’inconscio freudiano, dice ancora J.-A. Miller, «l’inconscio che Lacan ha tradotto con il termine di soggetto supposto sapere, e che è, per Lacan un’illusione strutturale: l’illusione che il passato, in quanto contiene tutto ciò che è stato il presente […] era già lì prima dell’esperienza stessa del presente»[26]. Il soggetto supposto sapere è l’illusione strutturale secondo cui ciò che si dice si riferisce al passato, a ciò che ha avuto luogo, come se fosse già lì prima dell’esperienza della seduta analitica, prima di parlare. Cogliamo quest’idea, come fa Jacques-Alain Miller, nella sua massima forza! Si tratta nella nostra interpretazione di trasformare l’illusione del soggetto supposto sapere, legata alla catena significante, dimostrando che questa illusione è fondata su un regime inedito, nuovo, dell’istanza della lettera: il cosiddetto «era scritto».
Nel primo insegnamento di Lacan, l’interpretazione aveva per effetto di dare accesso ai capitoli cancellati della mia storia, a ciò che era scritto nei capitoli della storia. Nel secondo, Lacan si disfa di questo riferimento alla storia per mantenere solo il riferimento all’«era scritto». L’effetto di supposto sapere, la sua generalizzazione, deve essere mantenuto a partire dalla potenza dell’«era scritto». Ne emerge una nuova concezione dell’interpretazione: «l’interpretazione, la cui essenza è il gioco di parole omofonico, è il rinvio della parola alla scrittura, cioè il rinvio di ogni enunciato presente alla sua iscrizione, alla sua enunciazione attraverso il soggetto supposto sapere»[27].
Il rapporto all’enunciazione nel regime del soggetto supposto sapere passa a quello dell’«era scritto nell’equivoco» grazie alla nuova concezione dell’interpretazione nel secondo insegnamento. L’interpretazione come omofonia (primo insegnamento) è presa nella generalizzazione dell’equivoco che suppone un rinvio allo è scritto, essa convoca il rapporto molto complesso tra parola e scrittura. Nel Seminario XXIII, Lacan sviluppa la scrittura come appoggio per la parola, rifiutando di seguire Jacques Derrida nella sua idea della scrittura come impressione, trama, traccia. Lacan si serve della scrittura e la definisce a partire dall’esperienza analitica, che rimanda la parola allo scritto, all’illusione strutturale generalizzata dell’«era scritto». Costruisce una letteralità, un rapporto all’istanza della lettera a partire dall’esperienza. «Una interpretazione vuole dire sempre “Tu hai letto male ciò che era scritto”. In questo senso l’interpretazione è una rettifica della lettura del supposto sapere. L’interpretazione suppone che la parola stessa sia una lettura, che essa riconduca la parola al “testo originale”»[28].
Nel Seminario XXIII Lacan mostra come dei significanti arrivino ad attaccarsi al nodo RSI – questa lettera in tre dimensioni. Essi si appoggiano su questa scrittura. La costruzione del caso Joyce è la scrittura del lapsus del nodo. Allo stesso modo, noi facciamo intervenire questa scrittura come supporto ogni volta che facciamo intendere al soggetto un equivoco che azzera il divario tra parola e scritto. Non è più solo una questione di S1 e S2, del supporto di S2 per dare senso all’S1 (di cui ci serviamo quando è possibile utilizzare il potere della catena interpretativa, S1→S2). Si tratta altresì di questa scrittura–supporto che mette in valore i diversi registri dell’equivoco, che allarga il campo delle interpretazioni possibili e il senso della nostra azione. Il soggetto barrato, identificato con la freccia del tempo, «quello che sopporta tutti i paradossi dell’ora», non sa situarsi e vuole riempire i buchi della mancanza-a-essere con le passioni dell’essere: l’odio e l’amore. E ci sono le passioni dell’anima, cioè le passioni dell’oggetto a, del corpo affetto dal godimento. L’interpretazione dell’era scritto interviene nel registro del «pathos dell’anima […] la fluttuazione degli stati d’animo, con la loro durata, con le loro sostituzioni, con il margine che viene lasciato al soggetto per farli durare o per tentare di riassorbirli»[29]. Interpretare significa leggere in questo margine, intervenire su questo margine.
In questo senso, la produzione del lampo interpretativo deve essere detta al plurale. I lampi degli inconsci, i lampi del parlessere, non includono solo il lampo che dipende dalla catena significante. «È il lampo a governare i tutti», il lampo governa tutti i significanti in una catena compatta. Alla fine dell’analisi, questa catena si scompone in «pezzi staccati» – come indica J.-A. Miller – S1, S1, S1, uno sciame che non è più legato, compattato in una catena, ma restituito alla casualità fondamentale. Il lampo è anche l’evento di corpo che viene a marchiare LOM che ha un corpo e che ne soffre. L’evento di godimento che viene a marchiare questo corpo con un ferro rovente è anch’esso un lampo, ma diverso dal precedente. Come Lacan osserva nel Seminario XXIII, il lampo dell’evento di corpo introduce un equivoco, una fessura nell’essere del corpo, a volte istantaneamente. Per quanto riguarda i fenomeni di credenza e di radicalizzazione, per esempio, si parla di radicalisation express: un momento prima, non era radicalizzato, l’istante dopo, lo è – ancora un po’ e la bomba scoppiava. Quando si tratta di credenza, il soggetto è appeso a un filo: la credenza è legata, da un lato, alla catena significante e all’Ideale e, dall’altro, al registro dell’evento di corpo. Queste due modalità d’interpretazione, con i loro registri infinitamente vari, costituiscono una pietra angolare che guida la nostra pratica.
L’interpretazione come giaculazione [30]
Il dire dell’analista, che risponde al dire dell’inconscio, diventa ibrido, Lacan lo ha chiamato giaculazione. «Ciò che proponiamo con il nodo borromeo va già contro l’immagine della concatenazione. Il discorso in questione non forma una catena […]. Di conseguenza si pone la questione di sapere se l’effetto di senso nel suo reale sia dovuto all’uso delle parole o alla loro giaculazione. […] Credevamo che fossero le parole che hanno una portata. Se invece ci prendiamo la briga di isolare la categoria del significante, possiamo vedere che la giaculazione conserva un senso isolabile»[31]. Per preservare questo legame di un effetto di senso che permane, senza tuttavia credere nella portata di un’enunciazione, Lacan arriva a porre l’esistenza di un effetto di senso reale. «L’effetto di senso richiesto al discorso analitico non è immaginario. Non è neppure simbolico. Deve essere reale. Quello di cui mi occupo quest’anno è pensare quale può essere il reale di un effetto di senso»[32].
Questa interpretazione non è dell’ordine di una traduzione che aggiunge un significante due rispetto a un significante Uno. Non mira alla concatenazione o alla produzione di una catena significante. Prende atto del nuovo scopo di serraggio del nodo intorno all’evento di corpo e dell’iscrizione che può essere indicata (a) in un uso rinnovato. «Il famoso concetto della lettera, fatto per surclassare la dicotomia tra il significante e l’oggetto» [33].
Lacan ha già utilizzato questo termine di giaculazione per rendere conto della forza del testo poetico, sia in relazione a Pindaro [34] che all’Angelo Silesio e alle sue giaculazioni mistiche [35]. O anche, fa del Poordjeli di Serge Leclaire, una formalizzazione fuori senso di diversi elementi del fantasma, «una giaculazione segreta, una formula giubilatoria, un’onomatopea»[36], come fa del «Fort-Da» una giaculazione. Nel Seminario sull’oggetto della psicoanalisi egli riprende le prime frasi del primo Seminario sull’azione del maestro Zen: «tutti sanno che un esercizio zen ha comunque qualche nesso, anche se non sappiamo esattamente cosa significhi, con la realizzazione soggettiva di un vuoto … il vuoto mentale che si tratta di ottenere e che si otterrebbe, quel momento singolare che segue l’attesa, che a volte si realizza con una parola, una frase, una giaculazione, anche una volgarità, facendo marameo, con un calcio nel sedere. È certo che questi tipi di farse o pagliacciate hanno senso solo alla luce di una lunga preparazione soggettiva […]»[37]. Possiamo ora aggiungere che Linji è stato, nello Zen, l’inventore e colui che ha saputo meglio praticare ciò che Demiéville traduce come eruttazione.
«Un’eruttazione, una procedura inimitabile della maieutica Chan; Lin-tsi è considerato il virtuoso più noto se non l’inventore»[38].
Jacques-Alain Miller ha dato a questa giaculazione una versione rinnovata che le dà tutta la sua portata. Ritiene che Lacan vada oltre l’atomo saussuriano che collega suono e senso facendo ricorso alla voce. «Un enunciato è … sottoposto alla matrice binaria di enunciato e enunciazione, che fanno due. Io direi oggi che la vociferazione, che considero il terzo termine dopo quello di proposizione e quello di enunciato, supera la divisione di enunciato e enunciazione. La vociferazione è enunciato-enunciazione come indivisibili. […] Essa non si mette a distanza da chi vocifera. E quando non c’è nessun da chi, si dice tutto insieme. In altre parole, la vociferazione include il suo punto di emissione»[39].
Ciò che si chiama giaculazione nel Seminario XXII, in quanto designa un effetto di senso reale, diventa nel Seminario XXIV il significante nuovo. «Quando fa appello a un nuovo significante, si tratta, in effetti, di un significante che potrebbe avere un altro uso,[ …] un significante che sarebbe nuovo, non solo perché ci sarebbe un significante in più, ma perché invece d’essere contaminato dal sonno, questo significante nuovo innescherebbe un risveglio»[40].
Questo risveglio è connesso alla produzione di un effetto di senso reale come produzione di un vuoto soggettivo. Così, nel suo ultimo insegnamento, Lacan disegna, letteralmente, con il nodo una modalità di trattamento della disrupzione del godimento da parte dell’Une bévue, cioè da una cantonata. Per questo riformula i termini classici degli strumenti dell’operazione psicoanalitica: l’Inconscio, il Transfert, l’Interpretazione, per proporne di nuovi: il parlessere, l’atto, la giaculazione, tutti e tre soggetti alla logica del C’èdell’Uno, giaculazione centrale nell’ultimo insegnamento di Lacan.
Dalla verità alla scrittura
Alla fine dell’analisi, arriva un momento in cui non si interpreta più. Arriva un sogno in cui una formulazione del sintomo si impone. I resoconti di passe lo testimoniano e possiamo fare riferimento alla recente testimonianza di Clotilde Leguil [41]. È l’equivalente di un assioma, nelle teorie formali, tranne che l’assioma è lì dall’inizio, come il dire che non può essere interpretato. Che sarà al di fuori dell’universo di discorso che stiamo costruendo. Dato un certo numero di assiomi sui quali non si dirà nulla, allora si costruisce un universo di discorso che genera proposizioni che si deducono dagli assiomi. In seguito, tutto viene interpretato, tutto viene dedotto, le proposizioni generate potranno rientrare nell’ambito del vero e del falso. Alla fine della storia d’amore con la verità, abbiamo un assioma. Qualcosa che viene a scriversi su cui non c’è molto da dire. Ciò dice tutto. È l’effetto ciò dice tutto che è come un assioma. La testimonianza di passe di Clotilde Leguil finisce con un sogno che riprende varie storie di acque cattive che possono causare la morte. Queste diverse significazioni si condensano nella lettera O. Ma in un altro sogno, il padre morto ritorna mentre sta iscrivendo un numero di telefono nel tentativo di darlo a sua figlia. Di questo numero di cellulare non restano che due cifre 0 e 1. Lo O, in cui si sono ridotti gli effetti di senso delle storie di morte, si riduce ulteriormente. Non è la O di una lettera, è lo 0 di una cifra. Qui tocchiamo con mano l’atomo di significazione evocato da Lacan a proposito di Glover. Si passa dalla O di una lettera che si può equivocare con l’acqua (in francese eau) che non si beve, la O del gruppo sanguigno, che segna la filiazione ridotta a una lettera. E la lettera O può far passare il soggetto da un senso di indigenza, nel momento in cui si separa dall’analista, all’urgenza dell’epilogo. Una lettera capovolge il senso. Più profondamente, nel sogno, in cui il padre morto lascia un numero per chiamarla, il messaggio si riduce a 0#1. Questa è l’opposizione fondamentale tra il niente e qualcosa. Inscrive nella forma più condensata tutto ciò che si giocava intorno al fatto di essere la prima figlia, trasformato nella esigenza super-egoica di essere la prima. Eccola ridotta a una scrittura. Quindi, lo 0 segna l’alternanza minima di ciò che può venire all’essere. Ciò fa valere che per Lacan, sotto il nome della lettera e della sua istanza, molto più che il grafema, viene la cifra, la lettera matematica.
Dietro la lettera matematica, l’opposizione tra lo 0 e l’1 è fondamentale per segnare l’inscrizione di ciò che si annoda come godimento intorno allo 0#1. S’introduce allora tutta la topologia dell’avvolgersi dei significanti intorno a questa scrittura. Dire che tutte le significazioni attraversate nell’analisi si attaccano infine a 0#1, ci permette di capire quando Lacan dice nel Seminario XXIII, che tutti i significanti si articolano intorno a una scrittura. La scrittura non è più ciò che viene a trascrivere la parola, come il grafema che trascrive ciò che è articolato nella parola. È la scrittura dei nodi borromei, la scrittura RSI, che fa bordo ai buchi del trauma nel corpo, intorno al quale tutte le narrazioni significanti si attaccheranno in una catena, nel suo senso più generalizzato. Questo inconscio che si lega è davvero l’inconscio in quanto è più vicino al trauma, all’emergenza traumatica. È a partire da questa prima scrittura sul corpo che tutto il resto si annoderà. Vediamo come bisogna superare, nel corso dell’analisi, i diversi equivoci dei miti soggettivi. Questo a partire dalle formazioni dell’inconscio, che all’occasione si mostrano nel sogno come un rebus, come diceva Freud. Questa modalità di scrittura ci permette di raggiungere il punto in cui si passa da una modalità di scrittura immaginarizzata a un punto di ombelico fondamentale. È il legame con un trauma che non può essere immaginarizzato nella scrittura del sogno e che verrà a segnare con l’ordine dello 0#1, ciò che emergerà, a marchiarsi come buco nel corpo. Questa cifratura riguarda la scrittura nel senso più fondamentale, la scrittura topologica, che diventa l’eccellenza della lettera matematica per Lacan, man mano che la mette a punto e che forgia una sua propria topologia, come aveva fatto per la sua linguisteria. La sua topologia è la modalità di scrittura che egli utilizzerà, che sfrutta un certo numero di proprietà delle superfici non orientate e dei nodi, per scrivere tutti i significanti nel campo del godimento e non semplicemente nel campo della linguistica. Egli può allora mostrare che ciò che viene ad attaccarsi è sempre impregnato di un marchio traumatico di godimento nel senso più profondo. Le varie bucce di cipolla che circondano il nocciolo del soggetto si disfano fino a portare alla luce questo nuovo amore per l’inconscio, che si lega, che allo stesso tempo, ed è qui che possiamo riprendere la «contingenza io l’ho incarnata nel cessa di non scriversi. Perché qui non c’è nient’altro che l’incontro, l’incontro nel partner dei sintomi, degli affetti, di tutto ciò che in ciascuno indica la traccia del suo esilio, non come soggetto ma come parlante, del suo esilio dal rapporto sessuale»[42].
L’interpretazione come evento
Jacques-Alain Miller ha collegato in modo decisivo la questione dell’interpretazione, nell’ultimo insegnamento di Lacan, a quella del sintomo: «…la definizione del sintomo come evento del corpo rende molto più problematico lo statuto dell’interpretazione che vi possa rispondere»[43]. Il sintomo diventa, da questo momento in poi, legato all’incidenza del linguaggio sul corpo. «Ciò verrà riassunto in maniera forse eccessivamente logica da Lacan nella formula “il significante è causa del godimento”, ma si inscrive nella nozione dell’evento fondamentale di corpo che è l’incidenza della lingua»[44]. La scrittura del godimento sul corpo ha la struttura del messaggio invertito del primo insegnamento e Lacan può così riformulare la sua definizione di messaggio invertito. «Ed è per questo che Lacan può scrivere […] “Certo il soggetto riceve il proprio messaggio sotto una forma invertita. Qui vuol dire il suo proprio godimento sotto forma di godimento dell’Altro”. Ovvero ciò che compie qui sotto una forma solo intravista, non sviluppata, è la corporizzazione della dialettica del soggetto e dell’Altro»[45].
L’interpretazione che ha la possibilità di rispondere alla scrittura corporizzata del sintomo non è solo un ibrido tra parola e scrittura, ma deve tener conto della conseguenza nascosta che questo ibrido implica. Nel significante saussuriano, ciò che funge da scrittura è l’atomo che lega insieme il significante e il significato. Una volta che questo legame è denunciato nel suo carattere artificiale e restituito al legame da costruire tra scrittura e parola, allora la parola si ritrova animata da una nuova dimensione, quella della voce che vi era nascosta. È la voce che ritorna nella giaculazione come nuovo uso del significante. Il ritorno di questa voce è stato definito da Jacques-Alain Miller come vociferazione. «Alla parola, la vociferazione aggiunge. Aggiunge il valore, la dimensione e il peso della voce»[46]. La voce rompe con il legame tra l’enunciato e l’enunciazione. La giaculazione è enunciata da un luogo che non è più enunciazione del soggetto, è enunciata dal luogo del più-nessuno. «Il luogo del Più-Nessuno è senza dubbio il luogo del soggetto, ma un luogo concepito e nominato da Lacan come il cerchio bruciato nella boscaglia del godimento … è ciò che si vocifera nel posto di Più-Nessuno».
Lacan si chiede allora come rendere conto del fatto che, se il significante è causa del godimento, bisogna chiedersi come questo godimento può sfuggire all’autoerotismo del corpo e rispondere alla giaculazione interpretativa. «Bisogna per lo meno sollevare la questione di sapere se la psicoanalisi …non sia quello che possiamo chiamare un autismo a due. C’è comunque una cosa che permette di forzare questo autismo, ed è precisamente che la lingua è un affare comune»[47]. Il godimento è auto-erotico, ma la lingua non è una questione privata. Essa è comune. E Lacan esplora le risorse di ciò che può permettere all’analista di far risuonare qualcosa di diverso dal senso, qualcosa che evoca il godimento nella lingua comune. Prima di tutto, c’è la poesia. «Queste forzature con cui uno psicoanalista può far risuonare qualcos’altro, qualcosa di diverso dal senso, perché il senso è ciò che risuona mediante il significante; ma ciò che risuona, non va lontano… [in] quella che si chiama la scrittura poetica, potete avere la dimensione di quella che potrebbe essere l’interpretazione analitica […] i poeti cinesi non possono fare altro che scrivere»[48].
Ma la scrittura poetica cinese non è solo l’incarnazione di un nuovo legame tra la parola e lo scritto. Include anche una modalità della voce, della vociferazione, nel modo di una certa salmodia, un canto, che si basa sul gioco tra gli accenti tonici tipici della lingua cinese. «C’è qualcosa che dà la sensazione che non si riducono a questo, perché essi cantano, modulano, c’è quello che François Cheng ha enunciato di fronte a me, cioè un contrappunto tonico, una modulazione che fa sì che si canti».[49]
Il riconoscimento delle diverse dit-mansions nel nuovo uso del significante che permette l’interpretazione, dà a Lacan la possibilità di rompere con la concezione saussuriana del segno e con la linguistica che ne è stata dedotta. «La linguistica è comunque una scienza che direi molto mal orientata. Se la linguistica si solleva, è nella misura in cui un Roman Jakobson affronta francamente le questioni di poetica. La metafora e la metonimia sono rilevanti per l’interpretazione solo in quanto fungono da qualcos’altro. E questo qualcos’altro di cui fanno funzione è proprio quella per cui suono e senso sono strettamente uniti»[50]. L’uso della metafora e della metonimia da parte dello psicoanalista non ha però lo stesso scopo del poeta, che mira all’effetto estetico, che libera un più di godere che gli è proprio. Lo psicoanalista, come nel motto di spirito, deve mirare all’etica, cioè al godimento. «È anche in questo che consiste il motto di spirito, consiste nel servirsi di una parola per un altro uso rispetto a quello per cui è fatta. Nel caso di famiglionario, la si accartoccia un po’ questa parola; ma è in questo accartocciamento che risiede il suo effetto operativo»[51].
La nuova poetica che Lacan porta alla luce attraverso l’interpretazione non è legata al bello, ma tocca il godimento come il motto di spirito che scatena un più di godere particolare. «Non dobbiamo dire niente di bello. È di un’altra risonanza che si tratta, da fondare sul motto di spirito. Un motto di spirito non è bello, si regge solo su di un equivoco, o, come dice Freud, su un’economia»[52].
Questo nuovo uso in questo nuovo scopo definisce bene allora il significante in un uso nuovo, o addirittura la possibilità di produrre un significante nuovo, su misura. «Perché non dovremmo inventare un significante nuovo? I nostri significanti sono sempre accolti. Un significante, per esempio, che non avrebbe, come il Reale, alcun tipo di senso. Non lo sappiamo, forse ciò sarebbe proficuo. Forse sarebbe proficuo, forse sarebbe un mezzo, un mezzo per sbalordire in ogni caso».
Il significante nuovo permette di elevare il dire all’altezza di un evento, come il sintomo.
«Notate che non ho detto la parola, io ho detto il dire, non tutte le parole sono un dire, altrimenti ogni parola sarebbe un evento, e non è il caso, altrimenti non parleremmo di parole vuote. Un dire è dell’ordine dell’evento»[53].
Il potere che Lacan attribuisce a questo nuovo uso del significante è un’azione diretta sul sintomo. Egli usa un’espressione curiosa a questo proposito, quella di spegnere il sintomo.
«È nella misura in cui un’interpretazione giusta spegne un sintomo, che la verità si specifica come poetica»[54].
Come capire questo verbo spegnere? Proporrei di ritornare allo «specchio spirituale» che ha aperto il nostro testo e di rileggere ora un paragrafo che riguarda l’impatto del dire e dove si annodano il chiarore e un’estinzione del bagliore. «Quando l’uomo cercando il vuoto del pensiero, avanza nel chiarore senza ombra dello spazio immaginario, astenendosi anche dall’attendere ciò che ne sorgerà, uno specchio senza bagliori gli mostra una superficie in cui non si riflette nulla»[55]. Il significante nuovo si inscrive su una superficie dove alcun barlume di senso viene a iscriversi. Rimane la pura traccia di un fuori senso che ha finito per spegnere il falso luccichio della credenza nel sintomo.
Traduzione: Rachele Giuntoli e Gabriele Grisolia
Revisione: Adele Succetti
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[1] J. Lacan, Posizione dell’Inconscio (1964), Scritti, vol. II, Torino, Einaudi, 1974, p.837.
[2] J. Lacan, Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnci di Freud, Seuil, Paris, 1975, p. 7.
[4] J. Lacan, Il seminario. Libro X. L’angoscia (1962-1963), Torino, Einaudi, 2007, p.244.
[5] Diény J-P., Paul Demiéville (1894-1979) in École pratique des hautes études, 4ème section, Livret 2. Rapport sur les conférences des années 1981-1982, pp. 23-29.
[6] J. Lacan, Un disegno (1966), Scritti, vol. I, cit., p.358.
[7] J. Lacan, Le Séminaire, livre XIII, L’objet de la psychanalyse, inedito. Trad. nostra
[8] Cfr. M. Heidegger, Logos, trad. J. Lacan, pp.59-79.
[9] J. Lacan, Il Seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio (1957-1958), Torino, Einaudi, 2004, pp.468-469.
[10] J. Lacan, La direzione della cura (1958), Scritti, vol. II, op. cit., pp.588-589.
[11] J. Lacan, Le Séminaire, livre XIV, La logique du fantasme, lezione del 21 giugno 1967, inedito. Trad. nostra
[12] Ibid.
[13] Ibid.
[14] J. Lacan, Scritti, cit., p.589.
[15] Ibid., p.590.
[16] Ibid.
[17] J.-A. Miller, Il rovescio dell’interpretazione (1995),in “La Psicoanalisi”, Roma, Astrolabio, n°19, p.127.
[18] J.-A. Miller, Il monologo dell’apparola (1995), in “La Psicoanalisi”, Roma, Astrolabio, n°20, pp.29-30.
[19] Ibid.
[20] Ibid., p.36.
[21] Ibid., p.37.
[22] Ibid. p.38.
[23] Ibid.
[24] Ibid., p.39.
[25] J. Lacan, Le Séminaire, livre XXII, R.S.I., lezione dell’11 febbraio 1975, inedito.
[26] J.-A. Miller, Introduzione all’erotica del tempo, in “La Psicoanalisi”, Roma, Astrolabio, n°37, p.34.
[27] Ivi p.35.
[28] Ivi, p. 37
[29] Ivi, p.45.
[30] Il termine “jaculation” in francese ha un uso letterario e raro che sta ad indicare un impeto d’entusiasmo, di fervore, un’effusione esaltata che deriva dal latino “iaculari”, lanciare.
[31] J. Lacan, Il Seminario Libro XXII, RSI , cit., inedito.
[32] Ibidem
[33] J.-A. Miller, Biologia Lacaniana ed eventi di corpo, in “La Psicoanalisi”, Roma, Astrolabio, n°28, p.53.
[34] J. Lacan, Il Seminario Libro VIII, Il Transfert,Torino, Einaudi, 2008, p.406.
[35] J. Lacan, Le Séminaire, livre XIII, L’objet de la psychanalyse, inedito.
[36] J. Lacan, Il Seminario, Libro XII, Problemi cruciali per la psicoanalisi, (1964-1965), il 27 febbraio 1965, inedito.
[37] J. Lacan, Le Séminaire, livre XIII, L’objet de la psychanalyse, inedito.
[38] Cf. Demiéville P., Entretiens de Linji, Fayard, Paris,1972, citato da Nathalie Charraud, Lacan et le Buddhisme Chan, in “La cause Freudienne”, n°79 (2011/2013), p.123.
[39] J.-A. Miller, XVIII, Nullibiété, Corso del 11 giugno 2008, inedito.
[40] J.-A. Miller, L’orientation lacanienne, le tout dernier Lacan, Insegnamento pronunciato nell’ambito del dipartimento di psicoanalisi dell’Università Parigi VIII, lezione del 14 marzo 2007, inedito.
[41] L’autore utilizza la versione della testimonianza presentata durante la serata della passe del 21 maggio 2019, ancora inedita. Altre versioni già pubblicate sono disponibili per seguire il ragionamento.
[42] J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Encore,Torino, Einaudi, 2011, p.139.
[43] J.-A. Miller, Biologia lacaniana ed eventi di corpo, cit., p.43.
[44] Ivi, p.81.
[45] Ivi p.100.
[46] Ibid.
[47] J. Lacan, Il Seminario, Libro XXIV, L’insu qui sait de l’une-bévue s’aile à mourre, lezione 10, 19 aprile 1977, inedito.
[48] Ibid.
[49] Ibid.
[50] Ibid.
[51] Ibid.
[52] Ibid.
[53] J. Lacan, Il Seminario, Libro XXI, Les non-dupes errent, lezione del 18 dicembre 1973, inedito.
[54] Ibid.
[55] J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, in Scritti, Torino, Einaudi, 1974, p.182.
L’inconscio, è la politica*
Membro AME ECF e AMP, Bordeaux
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Lacan ci dice «L’inconscio, è la politica» nella seduta del 10 maggio 1967 del suo Seminario. Egli stabilisce un raffronto tra questa formula e la frase di Freud «L’anatomia è il destino». Nella stessa seduta, Lacan pone la politica come ciò che lega gli uomini tra loro. Dietro questo legame c’è un altro legame per la psicoanalisi, quello tra uomini e donne. Si può dire che il legame tra sessualità e politica è oggi un’evidenza.
Ma, in questo campo, si è passati dalla sovversione dell’ordine sociale ad opera del desiderio sessuale nel 1968 alla crisi contemporanea delle identità di genere e delle trans-identità.
La scoperta di Lacan è stata quella di dire che, in ogni caso, non è l’atto sessuale a procurare una qualunque identità. Si può anche dire che l’enigma dell’identità, dal punto di vista dell’inconscio, è tanto più forte se il soggetto è una donna: era un problema per Freud sapere cosa vuole una donna. Quello che è paradossale è che ciò che può passare per un difetto apparente di identità può benissimo essere ricercato da un soggetto oggi come la posizione stessa di ciò che sfugge all’identificazione/assegnazione. E questo per i transMtf [1] tra gli altri.
Se seguiamo Lacan, l’essere umano è insessuabile, ed è proprio ciò di cui ci si accorge oggi! Quest’ultimo può sentirsi imperdonabile o scoprire che sono gli altri, quelli che rifiutano la sua vita sessuale, ad esserlo. Oggi, quello che è al centro di ciò che è percepito in politica, non è il discorso, è l’emozione, principalmente la collera, la rabbia o l’indignazione, o addirittura l’umiliazione.
Ed è lei che fa legame tra i soggetti prima di ogni riflessione. I partiti estremisti se ne accontentano. È in questo che la questione sociale tradizionale, per esempio economica, sembra non essere più al centro dei dibattiti. Da qui anche il successo dei professionisti dell’emozione come D. Trump e altri, molto peggiori, da noi. Le emozioni sono innescate dalle immagini, o da idee semplicistiche veicolate da immagini.
Quindi l’emozione è l’inconscio? Sicuramente no! Ma questo ci permette di comprendere meglio la tesi che Lacan avanza nella seduta del 30 maggio 1967 del suo Seminario [2] secondo la quale «l’Altro è il corpo». Se l’inconscio è il discorso dell’Altro, il corpo vivente ha preso anche il posto del soggetto: è la biopolitica identificata da Foucault. I corpi viventi contano.
Il corpo del soggetto parlante è un mistero che si cattura solo per il tramite di ciò che rende leggibile questo mistero, il sintomo. Si tratta del sintomo nel senso della psicoanalisi, cioè un sintomo letto e interpretato. È qui che Lacan ha potuto scrivere nel 1971: «Che il sintomo istituisca l’ordine in cui si conferma la nostra politica implica d’altra parte che tutto ciò che è di quest’ordine sia passibile di interpretazione. È per questo che si ha perfettamente ragione a mettere la psicoanalisi in testa alla politica. Il che potrebbe non essere affatto riposante, a giudicare da quanto si è finora contraddistinto in politica, nel caso che la psicoanalisi se ne rivelasse esperta»[3].
Si può dire che il soggetto contemporaneo è anche un soggetto che teme l’interpretazione, ma che allo stesso modo si lascia convincere da tutte le pseudo-interpretazioni ready made. Teme di essere interpretato, perché teme di perdere ciò che ha di più reale e che pensa di afferrare in presa diretta nel suo corpo, o prodotto dal suo pensiero. Questo rifiuto arriva al punto che oggi alcune scelte soggettive di cambiamento di sesso e di esistenza non dovrebbero più essere interrogate da nessuno, a norma di diritto.
Ma ciò che un soggetto ha di più reale è proprio il suo sintomo, come Lacan ha potuto dire agli Americani nel 1975 [4]. A condizione di interpretarlo. E in fondo l’inconscio, se gli si permette di prendere posto, con uno psicoanalista, è il migliore interprete del sintomo.
Traduzione: Laura Pacati
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*Trovate l’intervento dell’autore «L’inconscient, c’est la politique» su Studio Lacan, 4 dicembre 2021, https://www.youtube.com/watch?v=hnWEzOrRgck e su Hebdo-Blog n°258 del 9 gennaio 2022.
[1] Cfr. É. Marty, Le sexe des Modernes, Paris, Seuil, 2021, p.494.
[2] Cfr. J. Lacan, Le Séminaire, livre XIV, La logique du fantasme, lezione del 30 maggio 1967, inedito.
[3] J. Lacan, Lituraterra, in Altri scritti, Torino, Einaudi, 2013, p.16.
[4] Cfr. J. Lacan, Conférences et entretiens dans des universités nord-américaines, in Scilicet, n°6/7, 1975, p.41.
Beauty, storia di una sposa bambina
Noemi Galleani
Partecipante SLP, Venezia
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Quando inizio a raccontare la storia di uno o una dei migranti che in tutti questi anni ho conosciuto, mi risuona nella mente la frase della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie: «la conseguenza di un’unica storia è questa: sottrae alle persone la propria dignità. Rende difficile il riconoscimento della nostra pari umanità… le storie sono importanti, sono state usate per espropriare e per diffamare. Ma le storie si possono usare anche per dare forza e umanizzare. Possono spezzare la dignità di una persona ma possono anche riparare quella dignità spezzata»[1].
Beauty, donna del Bangladesh, si trova proprio in questa posizione anzi, è circondata da più storie, non da una sola, ma nessuna è la sua storia.
La sua assistente sociale ritiene che ci sia bisogno di una etnopsicologa che possa aiutare Beauty, ma anche tutti i Servizi che sono coinvolti in questa situazione (Consultorio, Tribunale dei minori, avvocati di parte, Comunità mamma bambino, il Centro antiviolenza, la Psichiatria).
È stata inserita mesi prima in una Comunità, assieme ai suoi due figli (una femmina e un maschio), dopo che la bambina aveva chiamato la Polizia mentre il padre stava picchiando la mamma, situazione che, come i Servizi capiranno, si ripeteva spessissimo. Attraverso i colloqui l’assistente sociale verrà a sapere che Beauty ha 26 anni (la figlia più grande 13) e che è sposata, con un inganno, a un suo cugino da quando ne aveva 10.
La conosco nel gennaio 2019. È una bellissima donna. Di lei mi sorprende subito la capacità di passare in brevissimo tempo dal più grande e accogliente dei sorrisi a un pianto inconsolabile o a un buio e una chiusura totale che esprime nei suoi lineamenti tirati, nello sguardo impietrito (lo abbiamo chiamato “lo sguardo che non guarda”), testimoni di una grande sofferenza.
Passo diverse settimane ad ascoltare il suo dolore, le sue paure, ma soprattutto la sua confusione: è passata da un marito-padrone che non le permetteva di uscire, che si ubriacava e la picchiava per qualsiasi cosa, a essere all’interno di un meccanismo che non comprende.
A un occidentale questa potrebbe apparire come una storia di violenza, di abuso, di schiavitù, per Beauty non è solo così o meglio, non è da lì che bisogna partire per ri-narrare la sua storia.
Beauty è arrabbiata con i suoi genitori. Quello che la fa soffrire, a volte anche più delle botte prese, è la menzogna, il tradimento che sente di aver subito da parte soprattutto della madre. Una madre che, diplomata, le aveva promesso che l’avrebbe fatta studiare.
Quando si è chiamati a seguire un soggetto all’interno del circuito dei Servizi Sociali è facile che lo si incontri dopo che diversi colleghi lo hanno già fatto, declinando ognuno il proprio sapere su di lui, dando pochissimo spazio, invece, al sapere del soggetto. Era arrivato il momento in cui Beauty potesse raccontarsi perché qualcuno dava spazio al suo dire.
Le domando se le andava di tenere un diario su cui avrebbe potuto scrivere i suoi pensieri, la sua storia, depositare in un posto altro il suo dolore.
Mi chiede se posso scriverlo io, mentre lei mi narra o mi legge quello che settimanalmente appunta su un foglietto: Beauty necessita di qualcuno che faccia da “custode” al suo dire.
Mentre Beauty nel mio studio ri-narra la sua storia, fuori, le Istituzioni continuano a costruirne altre: qualche giorno prima del processo, mi chiama l’avvocato della donna: «deve convincere la signora a non dire che se il marito l’avesse sposata e lasciata in Bangladesh lei avrebbe accettato questo matrimonio». Il Centro Antiviolenza non sa più come farle capire che deve prendere una decisione definitiva nei confronti del marito: deve lasciarlo. L’avvocato del marito, durante il processo, legge una frase presa da una delle relazioni delle operatrici della Comunità dove vive Beauty: «la signora, quando i bambini sono a scuola si trucca, si veste elegante ed esce dalla Struttura per qualche ora e non sempre ci dice dove va». Conclusione dell’avvocato: «chi si comporta in questo modo non può essere una donna depressa, che ha vissuto quello che racconta».
«Il rischio, quando un soggetto straniero viene inserito nel circuito dei Servizi, delle Istituzioni, è che il giudizio sul progresso, sul cambiamento abbia unicamente a che fare», come suggerisce Roberto Beneduce, «coi modelli interiorizzati degli operatori, e venga ritenuto irrimediabilmente inadeguato se non segue la direzione prevista dagli schemi comportamentali, dalle convinzioni ritenute fondamentali per essere all’interno del progetto pensato per lui»[2]. Progetto che non appartiene in toto a una sorta di cultura “originaria” del paziente, ma nemmeno che si iscrive nell’inquadramento diagnostico occidentale. Nel lavoro con i migranti occorre essere in grado ascoltare il sapere che l’Altro ci porta, senza inserirlo in categorie occidentali predefinite, mentre si tratta piuttosto di “decostruire le diagnosi”, per accogliere quei significanti che ci vengono da persone che appartengono a un altro universo simbolico, senza avere la pretesa di interpretarli e assimilarli con le “nostre” significazioni.
Ascolto, attraverso lingue infinite: pratiche, tradizioni, religioni e culture fra le più diverse; la sfida è quella di una clinica che “si assume dei rischi” che non «cerca delle costanti dietro le apparenze dei sintomi, non costruisce diagnosi universali»[3], come scrive Tobie Nathan. Le ferite di Beauty sono profonde, nei mesi è riuscita a prendersi del tempo per sé, per provare a capire cosa vuole e come può raggiungerlo. Le crisi sono ancora molto forti, passa giornate in lacrime, il suo percorso, ancora lungo, ha però subito una svolta: ha trovato un lavoro, frequenta un nuovo compagno, ha chiesto di continuare la terapia «adesso che posso pagarla». Beauty è passata da una «narrazione di destino» dove il rischio era quello di essere oggetto dei programmi di altri, a una «narrazione di progetto», in cui è lei, pur zoppicante, a essere soggetto del suo futuro.
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[1] Chimamanda Ngonzi Adichie, Il pericolo di un’unica storia, Torino, Einaudi, 2020.
[2] R. Beneduce, S.Taliani, Les archives introuvables, https://www.researchgate.net/publication/256796920_Les_archives_introuvables_Technologie_de_la_citoyennete_bureaucratie_et_migration
[3] Tobie Nathan, La follia degli altri. Saggi di etnopsichiatria, Ponte alle Grazie, 1993.