«Anche nei sogni meglio interpretati è spesso necessario lasciare un punto all’oscuro, perché nel corso dell’interpretazione si nota che in quel punto ha inizio un groviglio di pensieri onirici che non si lascia sbrogliare […]. Questo è allora l’ombelico del sogno, il punto in cui esso affonda nell’ignoto […]. Da un punto più fitto di quest’intreccio si leva poi, come il fungo dal suo micelio, il desiderio onirico».

S.. Freud (1899), L’interpretazione dei sogni, in Opere, vol. 3, Torino, Boringhieri, 1980, pp. 479-480.

Responsabile: Laura Storti – retelacan@gmail.com
Redazione: Eva Bocchiola, Sergio Caretto, Adele Succetti, Sebastiano Vinci, Giuliana Zani
Grafica a cura di: Matteo De Lorenzo
Per il sito: Valentina Lucia La Rosa

Sommario

Rete Lacan n°43 – 25 maggio 2022


In copertina:

esplosione!

icona del il XIX° Convegno della SLP-Cf: Interpretazioni esemplari che hanno avuto effetti

Dinanzi alla proibizione d’interpretare…*

Alejandro Reinoso
Membro NEL, SLP e AMP – Santiago del Cile – 27/4/2022

Ringrazio Matteo Bonazzi per l’invito a presentare un testo e conversare oggi con la Segreteria di Milano in preparazione del XIX Convegno della SLP. È un’allegria condividere questa tavola con Fabio e Federica. L’invito mi suscita una riflessione e molte domande specialmente cliniche.

Il titolo di questa serata è del tutto attuale e fa riferimento diretto a due interventi di J.-A. Miller dell’anno scorso: il primo, a Mosca, che in realtà, è stata la presentazione della Rivista di Psicoanalisi n. 9 su Zoom1;  il secondo, lo stesso mese di maggio 2021, è stato l’intervento sulla questione trans2.

In questa serata, la frase “proibito interpretare” viene declinata con un segno di domanda, di interrogazione, puntando all’attualità dell’interpretazione nel discorso del padrone contemporaneo, nell’estensione del discorso woke alla vita sociale, quotidiana e le difficoltà che essi pongono al discorso analitico. Possiamo leggere questa domanda in tre modi: c’è un’interdizione per quanto riguarda l’interpretazione? Abbiamo diritto a interpretare? Parliamo del soggetto di diritto oppure del soggetto dell’inconscio? Tutte e tre queste questioni riguardano senz’altro la nostra pratica con i soggetti, la nostra posizione e i nostri interventi. È una questione senz’altro vitale per la psicoanalisi.

Il tempo delle vittime

Non è il tempo dell’interpretazione, ricercata come una de-velazione, rivelazione, un sapere altro su se stesso. Oggi, per il soggetto contemporaneo, l’interpretazione viene letta, quando non c’è consenso, come un’intrusione che proviene dall’Altro. Un intervento che caccia via “l’io” che si afferma sui suoi detti, sul suo enunciato. Dunque, l’effetto della parola – parliamo di effetto come uno dei significanti del convegno – non è esemplare, al contrario, è una ferita; l’interpretazione ferisce, vittimizza. Il paziente vittima dell’analista e della psicoanalisi. Ecco, più o meno, il discorso dell’ “io accuso” di Paul Preciado.

La vittima è un luogo sociale contemporaneo. Anche gli storici attuali lo dicono: è il tempo delle vittime (Francois Hartung). Infatti, siamo nell’epoca del trauma generalizzato3, e questo discorso delle vittime è una delle sfumature del trauma generalizzato. Quindi la psicoanalisi potrebbe traumatizzare il discorso attuale – farebbe scandalo – e i pazienti stessi negli incontri. Cioè, l’interpretazione potrebbe vittimizzare, far del male, poiché rifiuterebbe le parole vere di un soggetto. Se una volta parlavamo – anche orgogliosi – dei poteri della parola, oggi, in questi tempi, siamo confrontati a una certa impotenza discorsiva, al “come dire”, al non saper bene come fare davanti ai tentativi di legarci le mani soprattutto quando il discorso del padrone è ideologizzato.

Una politica sociale dell’ascolto: un diritto

Siamo nell’epoca dei diritti: diritto alla parola, all’ascolto e la psicoanalisi ha contribuito a far posto, a mettere in valore l’ascolto clinico. Ma oggi si tratta di un ascolto senza travisamento, un ascolto dove si chiede in un qualche modo di non intervenire. A modo di apologo si potrebbe dire così: «mi ascolti a condizione di non dire nulla che modifichi il mio dire, di non toccare il mio linguaggio, la mia affermazione di essere, di non toccare assolutamente i miei nomi, neanche per sogno!! Nemmeno le mie scelte. Ho diritto di parlare ma di non essere interpretato da un altro».

Non c’è dubbio: l’ascolto è sceso in piazza, vocifera. Domanda all’Altro un posto, ne ha diritto.  Fa parte della felicità come fattore politico, nel modo in cui Lacan evocava Saint Just.

Le pratiche dell’ascolto non solo si sono diffuse massicciamente, l’ascolto è divenuto una politica. C’è un appello ai politici, governi, docenti, dirigenti, ai tribunali, di ascoltare. Non soltanto di fare politiche pubbliche nel modo classico ma di includere nella macro e micro-politica una pratica dell’ascolto. Sull’utilità sociale dell’ascolto Miller indica che «bisogna sapere che le pratiche dell’ascolto sono votate a diffondersi in tutta la società. Esse sono ormai presenti nelle imprese come nella scuola e ognuno può constatare che esse ispirano anche lo stile del discorso politico contemporaneo. L’ascolto è diventato un fattore della politica, è un obiettivo della civilizzazione»4.

In termini psi, l’ascolto è psicoterapeutico: se parlare fa bene, l’ascolto “attivo” dello psicoterapeuta farebbe definitivamente posto al soggetto. I cognitivisti lo chiamano oggi «validare il discorso del paziente». L’intervento stesso viene chiamato «validazione empatica». Siamo nel registro del riconoscimento. Sarebbe un Sì all’enunciato. Quindi, da questa prospettiva, ascoltare bene vuol dire avallare tutto il discorso del paziente, e così, il paziente acconsentirebbe al trattamento, facilitando la fiducia.

Oltre a qualsiasi desiderio di essere ascoltato, l’ascolto è un modo epocale terapeutico del fatebenefratelli, il sommo bene dell’ascolto. Così è diventato anche un comandamento, con tutta l’aria di una domanda sociale indirizzata all’Altro. È un soggetto in cerca di un avallo, ma che ha anche la sua propria garanzia. L’altro deve acconsentire. Ma questa ricerca di un Sì, è al contempo un No. È il discorso di un No alla divisione soggettiva, è la manutenzione dell’In-dividuo, soggetto in-diviso. Tutto ciò ha a che fare con argomenti già conosciuti tra di noi: la caduta del NdP, il simbolico non è più quello che era, l’emergere delle psicosi ordinarie, la ricerca esclusiva di effetti terapeutici, la cultura dell’anestesia, come la chiama Miller, il rifiuto dell’inconscio, eccetera. C’è un divario tra l’ascolto, che in teoria fa del bene, e l’etica della psicoanalisi che punta sulla responsabilità del proprio godimento singolare, che non c’entra niente con il sommo bene.

L’importanza attuale dell’ascolto, di questo diritto all’ascolto, ci dice Miller, «cancella ogni possibilità d’interpretazione», perché c’è una «scissione tra l’ascolto e l’interpretazione»5. Miller ritiene che la cosa possa diventare grave se la questione scala al potere politico: «è mortale per la psicoanalisi».

Dal “proibito proibire” del sessantotto, il discorso odierno accentua, accelera e mette in rilievo senza concessioni il fatto di non toccare la positivizzazione del godimento e i suoi nomi.  Vale a dire niente enigma. La domanda di aiuto tenta di non far passare l’equivoco. L’univocità implica l’assenza d’interpretazione. Si ricorre più facilmente alla medicina, perché «la pratica medica contemporanea tende sempre di più a fare a meno di interrogare il paziente».

Il minimo classico dell’interpretazione s’indirizza verso il soggetto dell’inconscio, che non è il soggetto del diritto. Miller sottolinea che «il soggetto del diritto si può definire così […] è l’antitesi del soggetto dell’inconscio. Il soggetto dell’inconscio, come ipotesi, è colui che non sa ciò che dice e che può essere interpretato»6.

Questo vuol dire che nel soggetto del diritto, c’è un volere essere ascoltato, ma, in un certo qual modo, rifiutando la costituzione e formalizzazione di un sintomo. Ricordiamo che «in psicoanalisi è ciò che dice il soggetto del suo sintomo che costituisce il sintomo stesso»7. Questo sintomo analitico ha a che fare con un impossibile, un reale irriducibile e singolare, fuori da qualsiasi serie di nomi e modi di godimento culturali. Quindi il soggetto del diritto va contro la nostra politica del sintomo. Miller ci ricorda che «il sintomo analitico poggia sulla testimonianza del soggetto»8. Dunque, il soggetto fa testimonianza ben prima di una testimonianza di Passe.

Quindi non c’è un ascolto analitico senza interpretazione. Inconscio e interpretazione sono equivalenti, sottolinea Miller9. Nonostante tutto ciò, quale tipo di ascolto analitico è conveniente?

Una sfida per la pratica della psicoanalisi

Se questo discorso del padrone giungesse al potere politico saremmo un po’ fregati, si dovrà lottare, come in altri momenti. Non è il punto che mi interessa oggi, anche se riconosco la sua pesantezza attuale e in futuro.

A livello della clinica mi pare che la sfida del problema dell’interpretazione si giochi non solo in un certo tipo di casi, come l’isteria senza Nome del Padre e le vecchie nevrosi di carattere. Il soggetto contemporaneo non vuole aprire la porta all’altra scena dell’inconscio. A mio avviso non è un problema che riguarda la fine dell’analisi. Questo punto importante riguarda soprattutto le analisi che cominciano e le interviste preliminari, specialmente gli inizi degli incontri con un analista, dove qualsiasi scontro e malinteso non ha ancora un legame che regga. La casistica indica che ci sono tante prime interviste-scontro, in cui non si fa legame. Possiamo dare la responsabilità agli analizzanti: non sopportano le sedute brevi, non rispondono all’equivoco, vogliono delle parole, pareri, commenti, hanno un parlato metonimico e per di più dilagano le psicosi ordinarie. Parliamo caso per caso, ma certe volte siamo forse troppo spinti alla “seduta ultracorta” e al silenzio negli inizi dei colloqui preliminari. In America è ormai una domanda classica: «sei uno di quegli analisti che parlano o di quelli che non parlano?». Abbiamo anche il rischio di avere, senza neanche saperlo, il nostro letto di Procuste, una nostra standardizzazione lacaniana, poco docile in realtà. Questo riguarda la seduta analitica. Occorre lavorare con dei casi per mettere la questione a fuoco. Forse è una sfida per la giornata clinica del nostro Convegno.

Ma a proposito specificamente della proibizione di interpretare mi domando quale sia la posizione conveniente quando c’è un rifiuto dell’enunciazione e in definitiva della castrazione. Mi chiedo anche quale sia il posto per il dire e le sue incidenze nella costituzione dell’amore di transfert che ci consente delle strategie nella direzione della cura.

Se si tratta in questo discorso, in effetti, di una proibizione di toccare il significante, di fare delle onde, vuol dire che l’interpretazione omofonica potrebbe diventare, sin dall’inizio, un potenziale scontro, soprattutto se non si crede all’inconscio, al sintomo. Un ingresso possibile è il minimo intervento interpretativo che Lacan propone ne Lo stordito: «non te lo faccio dire io». È una risonanza precisa, nel campo del dire, della posizione e del discorso dell’analista: il dire non proviene da lui.

L’analista, in questo caso, echeggia, senza rimandare ad altro. È una possibile porta ad aprire alla rettifica della posizione del soggetto nel suo rapporto con il dire, al reale del suo dire. Quando opera il dire, implica, tocca e desta l’amore transferale. È il sorgere di un dire pudico, come dice Patrick Monribot, perché tira fuori dell’innominabile, dell’indicibile.

Lacan si concentra sulla credenza nella Prefazione alla edizione inglese del Seminario XI: «l’inconscio, ovvero reale, come dico io – solo se mi si crede»10. Prendiamo questo punto della credenza. Miller spinge la questione sottolineando che il sintomo ha due facce: «l’una di pertinenza dell’interpretazione e una seconda che è di pertinenza di ciò che chiamerò, per ora, in mancanza di meglio, della constatazione. Che il sinthomo sia interpretabile, è dell’ordine della credenza»11. La constatazione – del sintomo – invece è dell’ordine della ripetizione e cioè dell’Uno del godimento. È un ascolto, «quello della ripetizione che si dirige verso l’esistenza»12. La constatazione non riguarda esclusivamente la questione della fine dell’analisi, gli Uno di cui gli AE fanno anche delle testimonianze per esempio con i sogni di constatazione del finale, che spingono, delle volte, verso il dispositivo della Passe. Mi pare che ci sia un uso possibile della constatazione legata alla ripetizione che si potrebbe iscrivere negli interventi agli inizi, nei preliminari. La constatazione stessa degli Uno-Tutto-solo contribuisce a isolarli. Isolandoli, gli Uno-totalmente-soli, acconsentono ad avere degli effetti terapeutici e analitici.

Gli Uno non fanno rapporto, non fanno amicizia tra di loro. Ma «l’amore ha questa proprietà di isolare un Uno, un Ersatz dell’Uno che è veramente interessante, il significante Uno, ma di cui non siete innamorati»13. A Comandatuba, Miller anticipava un’altra cosa riguardo all’amore. «Sebbene gli Uno-tutto-solo non facciano amicizia tra di loro, l’amore è ciò che può fare mediazione tra gli Uno soli”14.

Chiudo. Dunque, c’è una possibilità, una strada possibile: orientarci, in un’analisi, a partire da una clinica dell’Uno verso la scrittura, tramite invenzioni e constatazioni, fuori dall’Altro dialogico che vuole il discorso woke. Non rinunciare all’interpretazione, ma con un saperci fare prudente. Isolare un Uno-totalmente-solo agli inizi è fondamentale «perché il sintomo analitico sia costituito, bisogna innanzitutto che il soggetto stesso lo isoli come tale»15. Mi pare che il verbo “isolare” usato da Miller sia fondamentale. Isolare un Uno-totalmente-solo e la mediazione dell’amore senza significazione, un amore che non si indirizza verso nessun senso né altro, non farebbe per forza quell’effetto-buco sconvolgente che verrebbe rifiutato.  Questa è una delle facce del sinthomo alla fine dell’analisi. Possiamo usare questa prospettiva per leggere gli inizi con i soggetti contemporanei?

Si possono produrre dei veri incontri negli inizi in modo tale da poter passare dal contingente al necessario, qualcosa dell’ordine del nuovo all’amore di transfert. L’amore di transfert è qualcosa di veramente nuovo nel contesto attuale.

Forse così si potrebbe trovare un filo… Ripensare gli inizi, i primi incontri, a partire dall’ultimo insegnamento di Lacan accompagnati dalla lettura di Miller.

*Relazione presentata durante la serata Proibito Interpretare?, organizzata dalla Segreteria SLP di Milano, il 27 aprile 2022.

[1] J.-A. Miller, Presentazione della Rivista di Psicoanalisi #9, Russia. 15.5.2021.

[2] J.-A. Miller, Relazione alla Giornata “La femminilità, il fallo e la questione transessuale” organizzato da Espace Analytique. 2021-05-29.

[3] E. Laurent, El revés del trauma, “Virtualia”, 2, 2002.

[4] J.-A. Miller, Sull’utilità sociale dell’ascolto, “Rete Lacan”, 33, 19 Giugno 2021.

[5] J.-A. Miller, La questione Trans nella Psicoanalisi e per gli psicoanalisti, 2021-05-29.

[6] J.-A. Miller, La Cuestión Trans en el Psicoanálisis y para los Psicoanalistas. 2021-05-29.

[7] J.-A. Miller. Sull’utilità sociale dell’ascolto, “Rete Lacan”, 33, 19 Giugno 2021.

[8] J.-A. Miller e A. Di Ciaccia, L’Uno-Tutto-solo, Roma, Astrolabio, 2018, p. 142.

[9] J.-A. Miller, Presentazione della Rivista di Psicoanalisi #9, Russia. 15.5.21.

[10] J. Lacan, Altri scritti, p. 563.

[11] J.-A. Miller & A. Di Ciaccia, L’Uno-Tutto-solo, cit., pp. 141-142.

[12] Ivi, p. 149.

[13] Ivi, p. 117.

[14] J.-A. Miller, Una fantasia. Conferenza a Comandatuba, IV Congreso de la AMP, 2004, http://2012.congresoamp.com/it/template.php?file=Textos/Conferencia-de-Jacques-Alain-Miller-en-Comandatuba.html

[15] Ibidem.

Dico ciò che voglio, voglio ciò che dico*

Federica Facchin
Partecipante SLP – Milano – 27 aprile 2022

Apro il mio intervento con un piccolo aneddoto che contestualizza questa serata, e soprattutto il suo titolo. In un brainstorming sulla programmazione di questo momento di lavoro, insieme ai colleghi della terna di Segreteria di Milano (Matteo Bonazzi e Florencia Medici), siamo partiti da un intervento prezioso di J.-A. Miller rivolto agli psicoanalisti russi, si tratta della Presentazione del n°9 della Rivista di Psicoanalisi in Russia, la cui traduzione è pubblicata su Rete Lacan1. Il brainstorming ci ha portati a ricordare un testo intitolato Proibito parlare2, di Anna Politkovskaya, una giornalista russa del periodico indipendente Novaya Gazeta, assassinata davanti alla porta di casa nel giorno del compleanno di Putin. Questo ricordo si è annodato alla questione che Miller pone nel suo intervento e che riguarda l’ascolto senza interpretazione, vale a dire il contrario della psicoanalisi. Da qui, il titolo di questa serata in forma di domanda: “Proibito interpretare?”. In quel periodo non potevamo certo immaginare che cosa sarebbe successo in Ucraina, e proprio per questo si tratta di una piccola storia che merita di essere raccontata.

Nel suo intervento Miller si occupa di due fondamenti della pratica psicoanalitica, l’ascolto e l’interpretazione, confrontandoci in fondo con un paradosso: un certo tipo di interpretazione, che consiste nel dire “Tuo papà, tua mamma, eccetera…”, oggi è selvaggiamente sulla bocca di tutti, ma il fatto è che gli psicoanalisti non interpretano così. Miller ci dice chiaramente che cos’è l’interpretazione: è aprire una finestra su qualcosa d’altro rispetto a ciò che il soggetto voleva dire. È sottolineare il fatto che due intenzioni di significazione, quella dell’Io e quella dell’Altro con la A maiuscola, si incrociano. E che in questo incrocio ad avere la meglio è l’Altro, l’inconscio. Questo incrocio, ricorda Miller, ci riconduce ad uno dei primi schemi di Lacan e, aggiungerei, ci rimanda alla non coincidenza tra discorso dell’Io e discorso del soggetto dell’inconscio. È a partire da questo presupposto che possiamo interpretare in un altro modo ciò che il soggetto dice, anche quando il suo dire giunge nella forma di una volontà ferrea: “Io voglio”.

A questo si contrappone un atteggiamento americaneggiante, che centra la cura sull’ascolto empatico del “cliente” e sulla indiscutibilità di ciò che dice, nel senso che non c’è un’altra verità che possa essere interrogata. Il piano dell’enunciato, dunque il messaggio con il suo contenuto padroneggiato dall’Io, pretende di assorbire quello dell’enunciazione, che ci proietta invece nel luogo dell’Altro. Ciò che il soggetto dice, insomma, è esattamente quello e così va preso per promuovere la sua autorealizzazione – si potrebbe dire il suo adattamento –, che diventa l’orizzonte etico di queste psicoterapie, insieme con il conforto, la consolazione. Un orizzonte molto diverso dall’etica della psicoanalisi, che riguarda invece il desiderio inconscio e dunque, come ci ricorda Lacan, la sua interpretazione.

Questo atteggiamento, mi pare, entra anche in una certa pedagogia: l’importante è comunque che il soggetto sia felice, a cominciare dal bambino. “Be happy” diventa il nuovo imperativo. Curiosamente, come sostiene Walter Siti nel suo saggio intitolato Contro l’impegno3, le tracce di questa particolare forma contemporanea di engagement (promuovere il bene, aiutarci a vivere, favorire il nostro adattamento…), un neo-impegno lontano anni luce dalla versione sartriana, si ritrovano anche nella letteratura; l’“io standardizzato” dei personaggi è preso dentro a trame che si strutturano intorno a postulati indiscutibili, non ultimo lo “Yes, we can!” (se vuoi puoi, non mollare mai) di obamiana memoria. Anche la retorica della resilienza sembra ormai intoccabile, al punto che essere resilienti è diventato uno standard. Nell’epoca della felicità obbligatoria, è forse proibito soffrire?

A partire da queste considerazioni mi sono dunque chiesta quali potessero essere oggi alcuni enunciati su cui sembra proibito mettere parola, anche nel senso del provare ad interrogarli in un luogo diverso da quello dell’Io. E nel riflettere su questo mi sono accorta che essi si legano saldamente alla tecnica medico-scientifica.

Il primo detto ci riporta a quasi un anno fa, precisamente a Pipol, ed è “Voglio un figlio”. Anche quando il figlio è ad ogni costo e in barba ad ogni e qualsiasi limite, inclusa l’età della donna. L’avanzamento della tecnica nel campo della medicina riproduttiva permette di prendere questo enunciato alla lettera, e di realizzare questa volontà per rendere felice il soggetto. È evidentemente una prospettiva nella quale l’ambiguità del desiderio non viene contemplata, così come esclusa è la questione del godimento femminile: si prende per vero il fatto che una donna si soddisfi completamente, si realizzi nell’essere madre. E guai a mettere questa certezza in discussione. Ci ha provato ad esempio Orna Donath, sociologa israeliana che abbiamo ascoltato a Pipol, autrice di un testo coraggiosissimo sul Pentirsi di essere madri4. Libro che le è costato una caccia alla strega nella forma di insulti tramite social network, con tanto di istigazioni al suicidio: “Che cosa ci stai a fare al mondo se non vuoi un figlio? Perché non ti ammazzi?”. Lo ha dichiarato lei stessa in un’intervista in lingua inglese (il video si può guardare su YouTube)5.

Un secondo detto lo si potrebbe formulare così, in un modo un po’ paradossale: “Voglio un orgasmo”. Questo ci rimanda ad una certa sessuologia centrata sulla correzione della disfunzione, la tecnologia del godimento, che tratta gli organi come macchine programmate in funzione di un certo rendimento6. Dopo la liberazione sessuale, l’orgasmo da proibito diventa obbligatorio, il godimento sessuale viene assoggettato ad uno standard (quasi) pornografico, e dunque inesistente, e chi non vi corrisponde è difettoso, malato. A questo proposito, Bruckner parla di “terrorismo dell’orgasmo”7.

È la stessa logica di una certa branca della chirurgia estetica, con particolare riferimento alla labioplastica, procedura che prevede dei tagli praticati ai genitali esterni femminili (la cui forma in realtà varia moltissimo da donna a donna, una per una) per adeguarli a quell’ideale di flat vagina, cioè di vulva piatta, quasi prepuberale, che i chirurghi hanno mutuato dalla pornografia, soprattutto quella online. Il bisturi del chirurgo viene al posto di quello del linguaggio, bypassando – anche in questo caso – il desiderio e la sua ineffabilità, e dunque il fatto che il proprio essere sessuato è sempre interpretato in modo singolare da ciascun soggetto8.

Il volere, sottolinea Marie-Hélène Brousse9, rileva del Super-io e non dell’inconscio, e si situa nei discorsi di dominazione che tappano la bocca ai soggetti. Questa versione contemporanea del Super-io, che incita a godere, oggi incontra pericolosamente il mercato, la scienza, e quella che, riprendendo sempre Marie-Hélène Brousse, sembra essere la soggettività della nostra epoca: la disconnessione del corpo dalla parola10. Il ritorno in auge dell’istinto materno – “Siamo nate per questo!”, esclamava tempo fa una giovane donna con problemi di infertilità – e sessuale è una pericolosa conseguenza di questa scissione, che alimenta il senso di colpa e di mostruosità di chi dal programma istintuale si sente (fortunatamente) ben poco orientato.

Occupandosi di parlesseri e dei loro modi di godimento snaturati dal linguaggio, la psicoanalisi può offrire gli strumenti necessari per ricucire questo taglio tra il corpo e la parola. Punteggiare il discorso del soggetto, non far scivolare via dei significanti che tornano… questo riguarda l’interpretazione e i suoi effetti di sorpresa, come ad esempio quando il soggetto si accorge che effettivamente lì ça parle, c’è chi parla”11.

* Intervento presentato in occasione dell’evento “Proibito interpretare”, organizzato dalla Segreteria di Milano in preparazione al XIX Convegno Slp “Interpretazioni esemplari che hanno avuto effetti”.

[1] J.-A. Miller, Presentazione del n. 9 della Rivista di Psicoanalisi in Russia 15 maggio 2021, in Rete Lacan n. 34, 26 giugno 2021.

[2] A. Politkovskaja, Proibito parlare. Cecenia, Beslan, Teatro Dubrovka: le verità scomode della Russia di Putin, Milano, Oscar Mondadori, 2007.

[3] W. Siti, Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura, Milano, Rizzoli, 2021.

[4] O. Donath, Pentirsi di essere madri. Storie di donne che tornerebbero indietro – Sociologia di un tabù, Torino, Bollati Boringhieri, 2017.

[5] http://www.youtube.com/watch?v=0MDVfYPuLmQ

[6] P. Bruckner, A. Finkielkraut, Il nuovo disordine amoroso, Milano, Garzanti, 1979.

[7] P. Bruckner, Il paradosso amoroso, Parma, Ugo Guanda, 2012, p. 19.

[8] C. Leguil, L’essere e il genere. Uomo / donna dopo Lacan, Torino, Rosenberg & Sellier, 2019.

[9] M.-H. Brousse, Il volere e la vita inumana, in Attualità Lacaniana n. 30, luglio/dicembre 2021.

[10] Si veda l’intervento di M.-H. Brousse, intervistata da L. Dupont, su Les modes du sexe. Il video si trova su YouTube sul canale Lacan Web Télévision: http://www.youtube.com/watch?v=kM2Ogcq3CaU

[11] J. Lacan, La cosa freudiana. Senso del ritorno a Freud in psicoanalisi, in Scritti vol. I, Torino, Einaudi, 2002, p. 403.

Agĕre

Erick González
Membro ELP e AMP- Barcellona – Spagna

 

Introduzione

Ci sono diversi modi di affrontare la questione che mi avete posto per oggi1. Inizierò dicendo che lascerò a lato alcuni punti di quello che il tema mi ha suscitato, ma tuttavia vorrei dire qualcosa sull’erotica del tempo. Era da tempo che giravo intorno alla questione della dichiarazione del mio desiderio di far parte della Scuola, quando un giorno un’Amica della psicoanalisi mi disse: «E se non arrivasse mai il momento opportuno?». Alcuni mesi dopo mi decisi a scrivere una mail al presidente dell’ELP e iniziai il procedimento di ammissione. Feci i due colloqui una settimana prima della dichiarazione di urgenza sanitaria a causa del Covid-19, con un’urgenza soggettiva che misconosceva quello che stava per succedere da lì a poco, la reclusione per due o tre mesi e la chiusura dello spazio aereo per molto più tempo, a livello globale, un’urgenza che operava al contrario di quello che era stato proprio il funzionamento sintomatico della procrastinazione.

Lascio quindi a lato il tema dell’interpretazione e dell’Amicizia. Ma credo che non sia un tema minore.

L’agire

Ho incontrato con allegria, nell’argomento del Convegno sulle Interpretazioni esemplari che hanno avuto effetti, la cui preparazione ci riunisce oggi, un riferimento a l’agire. Nel paragrafo sulle declinazioni che derivano dalla tematica principale dell’interpretazione, c’è un punto in cui si fa riferimento al trio freudiano “inibizione, sintomo e angoscia”, per collocare come l’angoscia orienti l’interpretazione, come la attrae secondo il modo di un polo condensatore, nel quale si riunisce la direzione dell’atto al fine di produrre un capitonaggio, di «arginare il suo sviluppo»2.

Direi che ho incontrato con allegria questo significante “agire” in questo punto in cui si dice che l’interpretazione in relazione all’angoscia prende almeno due versanti: quello in relazione all’identificazione che mira ad un effetto disidentificante, e d’altra parte, alle questione di quale incidenza o tipo di relazione ha l’interpretazione rispetto all’acting out e al passaggio all’atto.

Per voi che siete immersi nella lingua italiana, la dimensione de l’agire probabilmente è semplicemente questo: L’atto. Senza dubbio, per un ispano parlante diventa allora evidente la relazione etimologica tra agitazione e atto raddoppiata in acting out e passaggio all’atto. L’agire è allora il nostro nodo tra l’angoscia, queste due frecce dell’atto, ma soprattutto il lato del “turbamento” (significante imparentato con quello di agitazione ed anche commozione) e il suo rovescio a livello dell’inibizione del movimento (movimento è agĕre in latino) che è l’imbarazzo3.

Quando Miller, in merito a Barcellona, nella Sessione dei Presidenti del 4 di aprile ha segnalato una mancanza di agitazione – e aggiunge intellettuale – come quella che c’era da decenni, è risuonato subito in me che se non siamo dal lato del turbamento, allora siamo nel lato dell’inibizione o con un pò di fortuna al livello dell’impedimento o dell’imbarazzo. Per tanto, occorre passare per il bordo del passaggio all’atto, ovvero, dell’imbarazzo, via sintomo, verso il lato agire, dell’agitazione-turbamento? L’acting out ha una cattiva reputazione. Sì. Ma senza dubbio è solo così che si può collegare con difficoltà e tramite l’interpretazione, turbamanento con l’angoscia, ed è così che leggo la forma che ha preso la relazione che ha presentato l’ELP, e si può leggere solo in après-coup, ovvero dopo aver preso la risposta di Miller a questa relazione come un’interpretazione – che ha avuto effetti.

L’effetto? Commozione, agitazione, turbamento, perturbazione. Non ho potuto prendere la parola in questa Sessione, dato che non ero lì all’ECF, ma comunque mi ha mosso tramite lo scritto, il primo verso la ELP, e attraverso il suo Blog potremmo dire che mi ha mosso fino a qui, verso la SLP – e tra alcuni giorni parteciperò anche in uno spazio della NEL Caracas su questa stessa questione, proprio nel mio paese di origine. Se sono arrivato fino a qui, è forse perché qualcosa di questa mia perturbazione, di Barcellona, mediterranea, il suo gioco di parole nel dire di Miller, risuona, rimbalza verso questi versanti dell’adriatico e perché no anche di quelli dei caraibi?

Faccio così il movimento che fecero i miei nonni migrando dall’Italia al Venezuela. Agĕre! Agire!

Tre dimensioni dell’interpretazione

Concluderò con tre piccoli punti:

  • L’interpretazione in analisi.
  • L’interpretazione nel marchio della Scuola-Soggetto.
  • E l’interpretazione di uno qualunque ma non uno qualsiasi

Non prenderò questi tre piccoli punti, per tanto, in una sorta di ampiezza debordante, ma in linea con ciò che mi ha condotto fin qui, un sintagma che ho lanciato in mezzo alla mia agitazione e che risponde alla supposta mortificazione del desiderio nella ELP e al supposto essere poco sexy per i cosiddetti giovani, sintagma che è la “Direzione verso la Scuola di ciò che è giovane e il suo rovescio”4. Faccio qui un inciso, per sottolineare che c’è un equivoco in questa frase, dato che abbiamo allo stesso tempo, direzione di ciò che è giovane e il suo rovescio verso la Scuola, e direzione verso la scuola-di ciò-che-è giovane-e-il-suo-rovescio.

Âge

C’è un estratto del mio testo citato sopra in cui parlo di un commento che fa Miller nel suo Diario Éstimo dell’anno 20175, in piena campagna Anti-Le Pen, mentre parla della difficoltà di discriminazione tra la causa degli effetti in un parlêtre, rispetto a ciò che chiama Tripla A: Analisi, Età (Âge) o Amicizia. La A di Età viene dal francese “Âge”. Possiamo mettere in relazione questo Âge con agĕre di agitazione e agire di atto? Posso rispondere a questa domanda solo dicendo che per fare il passaggio dal “rabbioso all’indulgente” che Miller pone in questo diario, fa un cambio di posizione, che gli ha permesso di farne qualcosa con la Polemica che attraversa, ci vuole che tra l’Analisi e l’Età [Âge], appaia l’Amicizia. Nel suo caso Bernard-Henry Lévi. Qui sto un pò forzando la corda, perché forse in questo momento, almeno per me, si tratta di passare dall’indulgente al rabbioso, intervenendo sul punto dell’Amicizia, facendo in modo che qualcosa di ciò cada, ma non senza sostenersi proprio su questo.

Se l’analizzante che diventa analista si autorizza solo da sé, come dice Lacan nella sua Proposta, il suo movimento, il suo agĕre verso la Scuola, passa per qualcosa di un’incidenza diretta di una o diverse interpretazioni del suo analista? Oppure, siamo qui già nel terreno del Più-Nessuno [Plus-Personne], in cui ad ogni modo siamo obbligati a raccogliere alcuni scollamenti causati dalla brutalità dell’interpretazione dell’inconscio e niente di più?

Mi domando allora, se nell’epoca dell’Uno-solo, e del suo doppio versante dell’inconscio interprete e dell’inconscio reale, l’analista non interpreta, ancor meno in merito a ciò che ha a che fare con una possibile mutazione soggettiva che è suscettibile di derivare in un movimento da analizzante ad analista. Non è allora per via della complicità-estimità con altri, questi “sparsi scompagnati”6, che qualcosa finisce per annodarsi, in una topologia molto singolare che si costituisce in solitudine e in diversi [à plusierus]?

È per questo che mi piace molto una definizione che ho sentito dire a Bernard Seynhaeve all’ECF sulla pratica in diversi come “complicità tra analizzanti”. Sapete bene che la pratica in diversi è stata inventata a partire dalla struttura offerta nei testi istituzionali scritti o enunciati da Lacan. Per questo, tale definzione di Seynhaeve possiamo porla in tensione con la Scuola.

Avevo tradotto – alcune ore prima di mettermi a scrivere questo testo – un’allocuzione di Éric Laurent fatta in omaggio a Virginio Baio che ha diretto l’Antenna 1107. Delle diverse questioni che sono messe in evidenza in quel testo, mi sembra giusto prenderne due per riportarle qui in merito a quello che ho annunciato come tre dimensioni dell’interpretazione, sulla prima che ho già esaurito (quella dell’analisi), in relazione sempre con il sintagma “direzione verso la Scuola”. La prima questione nel testo di Laurent è riferita al passaggio che introduce Baio dal discorso religioso a quello dell’istituzione (orientata dalla psicoanalisi), ed è questo quello che, avvertito grazie ad una certa separazione rispetto al fantasma di essere l’eletto, non rinuncia al desiderio di “spogliarsi del vecchio uomo”, come dice la Bibbia, mirando a convertirsi in questa figura del Santo, che Lacan prese da Baltazar Gracian e il suo Oracolo Manuale come modello per l’analista. La seconda questione è un riferimento a qualcosa che si trova ne La proposta, il significante “qualsiasi” del transfert, come una virtù che si distacca in Virginio; questione che qualsiasi operatore può convertirsi in un partner che permetta di trattare l’Altro persecutore dei bambini (hillflossigkeithelplessnes) smarriti che si incontrano. La questione è che c’è una differenza nei termini che usa Lacan e che Laurent e Baio estraggono, tra qualsiasi e qualunque.

Sulla funzione del Più-Uno, Baio, in un testo intitolato Inventare un partner… dice: «questa funzione può essere incarnata da uno qualunque ma non da “uno qualsiasi”»8.

Questo è il rovescio della questione del Soggetto-supposto-Sapere e del significante qualunque. Qui abbiamo un’incarnazione, non di un sapere supposto, ma di un sapere esposto. Una curiosa logica che ci deve far giungere alla domanda sull’interpretazione nel marchio della Scuola-Soggetto, in un marchio plurale, collettivo, degli “sparsi scompagnati”.

A partire da qui ho proposto questa terza dimensione dell’interpretazione, non di uno qualsiasi ma di uno qualunque. Potremmo dire che, se c’è effetto di interpretazione, come quello che sembra ci sia stato a livello della Scuola a partire dalla proposta di Miller durante quella Sessione, questo si pone in una logica di questo qualunque, ovvero, della scelta che ciascuno fa di prendere ad esempio questo “Sexy” nella Scuola con un valore di interpretazione.

Per concludere, vorrei dirvi che ho voluto leggere l’evento in forma di libro Lacan Hispano e la sua architettura posta da Miller, come un suo modo di sollevare l’ombra della domanda: cosa ne sarà della psicoanalisi ad orientamento lacaniano in un futuro prossimo? Ho voluto ed è stata allo stesso tempo una scelta forzata quella di fare questa lettura e l’ho presa sul serio. Per questo mi agito e mi muovo. E la questione della Scuola dei giovani si incontra come un buco al centro delle mie domande.

[1] Intervento alla serata organizzata dalla Segreteria di Rimini in preparazione al XIX Convegno della SLpcf, 3 maggio 2022.

[2] O. Battisti e L. Storti, Interpretazioni esemplari che hanno avuto effetti. Avvio dei lavori, disponibile su: https://xixconvegno2022.slp-cf.it/il-congresso/presentazione/

[3] J. Lacan, L’angoscia nella rete dei significanti e Passaggio all’atto e acting out. In Il seminario. Libro X. L’angoscia, Torino, Einaudi, 2007, pp.5-18 e pp.124-141.

[4] E. Gonzalez, Dirección hacia la Escuela de lo joven y su reverso, disponibile su: https://elp.org.es/elevar-el-oikos-a-la-dignidad-de-lo-sexy-sobre-la-direccion-hacia-la-escuela-de-lo-joven-y-su-reverso/ [trad. nostra]

[5] J.-A. Miller, Polémica Política. Gredos, Barcelona, 2021, p. 395. [trad. nostra].

[6] J. Lacan, Prefazione all’edizione inglese del Seminario XI, in Altri Scritti, Torino, Einaudi, 2013, p.565.

[7] E. Laurent, L’attenzione clinica di Virginio Baio e la sua traslazione etica, Rete Lacan n°41 – 14 marzo 2022, disponibile qui: https://www.slp-cf.it/rete-lacan-41-14-marzo-2022/#art_5

[8] V. Baio, Inventar un partenaire entre varios para la cura del niño psicótico. In “L’Atelier”, n°5, 2022, p.53. [trad. nostra]

La legge forclude l’interpretazione *

Ricardo Seldes
Membro AME EOL e AMP, Buenos Aires

 

Una domanda

Un caro amico che vive in Europa assiste all’impressionante dibattito che ivi si è svolto a causa del moltiplicarsi di persone che hanno deciso di integrare il mondo “trans”, a partire dalla richiesta di leggi egualitarie che mirano a evitare la segregazione e i maltrattamenti sociali nei confronti di chi sceglie di assumere questa posizione.

Per la rilevanza di questo dibattito ha chiesto la mia opinione sulla legge argentina n. 26.743 sull’Identità di Genere, che viene studiata oltre i nostri confini per la sua volontà di andare oltre i canoni sociali e religiosi storicamente istituiti a tutela di una popolazione particolarmente indifesa. Secondo l’Osservatorio di Genere, Biopolitica e Transessualità della Federazione Americana di Orientamento Lacaniano FAPOL): «[…] sebbene la popolazione trans sia ancora in una situazione di vulnerabilità dovuta allo stigma e alla discriminazione, la sanzione della Legge ha prodotto un impatto notoriamente positivo sulle loro condizioni e qualità di vita». Analizzando statisticamente questi dati, non è emerso un cambiamento così evidente, ciò non ha impedito ma anzi ha permesso che si realizzassero importanti interventi sociali a livello sanitario, educativo e lavorativo. Questa legge dà accesso, nel reale dell’organismo, a interventi chirurgici o ormonali senza il preventivo intervento di un avvocato, medico o professionista, così come, nella possibilità legale, nel simbolico, di scegliere sesso e nome. Nell’immaginario, per esempio, la libera scelta di abbigliamento, modi di parlare e comportamenti.

La legge è stata emanata nel 2012 e merita di essere parzialmente commentata. Per iniziare, diciamo che l’articolo 13, relativo alla sua applicazione, indica il rispetto del diritto umano di vivere detta identità (di genere) come base della legalità morale. Questo è un principio fondamentale e inalienabile per un Paese come il nostro in cui, come è accaduto nel resto dell’America Latina, i diritti sono stati particolarmente calpestati durante il XX secolo e riconquistati attraverso lotte e perdite importanti. Ecco perché festeggiamo sempre quando è possibile avanzare verso questa direzione e le minoranze non sono lasciate alla mercé delle ideologie che minacciano la loro esistenza.

La legge sull’Identità di Genere tocca una questione molto delicata e importante come la questione dei diritti dell’infanzia. «In relazione all’applicazione della Legge per i minori di 18 anni si stabilisce una differenza: per quanto riguarda la richiesta del cambio di nome e di sesso nei documenti e dell’accesso ai trattamenti ormonali, basterà che la richiesta sia inoltrata dai legali rappresentanti del minore – il giudice interverrà solo se non c’è accordo tra il bambino e i suoi rappresentanti legali. Invece, per gli interventi chirurgici parziali o totali per la riassegnazione del sesso, è necessaria l’approvazione del giudice […]. Nel caso di minori, la Legge sull’Identità di Genere si avvale della Legge 26.061, Legge per la Protezione Integrale dei diritti delle bambine, dei bambini e degli adolescenti, istituita nel 2005, che stabilisce che i minori sono soggetti di diritto e non solamente oggetti di tutela, come previsto dalla normativa precedente»1.

Esaminando la legge con i nostri occhi di neofiti, la prima cosa che emerge è che aldilà della difesa dei diritti umani, in particolare dei bambini, si è riattualizzato e reso efficace un legame tra la legge e le innovazioni tecnico-scientifiche, alleanza che è andata approfondendosi negli ultimi decenni insieme alla necessità della creazione dei comitati etici che hanno l’obiettivo di evitare gli eccessi che, in diverse occasioni, minacciano la sopravvivenza della specie umana. Da molto tempo la letteratura di fantascienza ci mette in guardia sull’argomento e il catalogo delle nuove serie in streaming rafforza tali posizioni.

Da questa profonda dichiarazione di principi oso unirmi al mio amico che mi ha posto la domanda che così riassumo: mi spieghi come sia possibile che in un paese così tanto segnato dalla psicoanalisi e da Lacan, ci sia una legge che promuove un malinteso dove si afferma l’ascolto a scapito dell’interpretazione? Non è una negazione dell’inconscio?

Confesso che questa domanda mi ha causato una certa perplessità, quella che ci suscita lo scoprire che il sapere che pensavamo di avere, quando il simbolico che ci guida non riesce a rispondere ai requisiti del reale e sentiamo che una verità inedita si aggiunge alla nostra conoscienza. Che cosa implica allora l’affermazione che l’ascolto delle valide rivendicazioni delle minoranze ha funzionato a scapito dell’interpretazione?

La scienza, la legge e le identificazioni

Abbiamo assistito durante l’ultimo anno e poco più all’attesa disperata e condivisa di una soluzione scientifica al problema Covid che ha messo in gioco un numero enorme di vite e rischi insoliti per la salute e la sopravvivenza umana, al di là di qualsiasi speculazione sulle sue cause. È vero che non ci siamo resi conto abbastanza che ci sono altre questioni in cui sono intervenute conoscenze scientifiche e normative che, in nome di diritti umani, mirano a ignorare (negare o forcludere) ciò che per noi psicoanalisti è il tesoro meglio lavorato: l’inconscio. È un determinante che presuppone l’incontro del rapporto di ciascuno con lalingua, così chiamata da Lacan alludendo alla lingua madre quella che ci abita come condizione di godimento e modo di vivere di un soggetto le proprie identificazioni e quindi, la propria identità.

La legge è per tutti e come tale è disumana per struttura perché trascura il particolare. Ecco perché esistono i giudici, le persone e non le macchine giudicatrici, precisamente per umanizzarla.

Una domanda complessa allora in un Paese dove sono avvenute appropriazioni illegali di minori e che in alcuni casi, fortunatamente, sono stati poi reintegrati nelle loro vere famiglie. Come si arriva a definire un tema così spinoso come quello dell’identità? Come abbiamo detto, la Legge di Genere interviene anche con i bambini e gli adolescenti sebbene sappiamo che l’infanzia e l’adolescenza sono momenti della vita dei soggetti in cui questa identità è un work in progress, e ancor di più, che nella loro vita adulta molti soggetti continuano a chiedersi e ad angosciarsi sulla loro posizione, da un lato o dall’altro della sessuazione. Di solito è motivo di domande e di inizio di molte analisi e può costituire il sintomo fondamentale di alcuni individui.

È forse così facile capire quali sono le identificazioni inconsce che nutrono e complicano l’identità di ciascun essere parlante? Non servono invece spesso anni di lavoro psicoanalitico affinché queste identificazioni si separino dalla modalità del godimento, dalle scelte d’amore che il fantasma costringe e sostiene? Da questa prospettiva, è molto difficile accompagnare la logica di una legge che vuole dare una risposta così tagliente e decisa di fronte a un problema che si rivela impossibile o difficile per ogni soggetto parlante. È davvero così importante rispondere al clamore dei gruppi con una legge che, come ha affermato la nostra collega Silvia Tendlarz, finisce per funzionare come un performativo contro la quale è necessario interrogare le particolarità?2.

La psicoanalisi ha scoperto che le identificazioni si riferiscono all’Altro e dipendono del grado di consistenza o inconsistenza di questo Altro che sostiene i discorsi e il loro impatto. Sebbene una società di diritto è ciò di cui abbiamo bisogno affinché i soggetti possano incanalare i propri desideri e trovare i mezzi per soddisfare le proprie pulsioni in un modo non doloroso per sé e per gli altri, supporre che la legge insieme ai progressi scientifici (ormonizzazione, interventi chirurgici, eccetera) possano risparmiare ai soggetti le tribolazioni che derivano dal confrontarsi con la relatività delle identificazioni, è un’altra questione. Come ha sottolineato J.-A. Miller «[…] l’identificazione è un’identità di sembiante»3. Ignorare questo principio è costringere un bambino o un adolescente a impegnare il resto della propria vita per qualcosa che qualifichiamo come uscita dalla confusione contemporanea.

La legge di ferro forclude l’interpretazione

Se le leggi, che sono quelle che assicurano l’eguaglianza e la possibilità di fare ciò che non è proibito, si schierano con il Super-io, esigono un godimento impossibile. C’è una verità evidente dopo Freud, nessuno sa che cosa dice perché c’è l’inconscio, nessuno sa che cosa vuole, perché c’è il linguaggio, nessuno può cogliere il proprio godimento perché lalingua stessa è ciò che lo spinge a dire e a fare per scopi autoerotici che non sempre funzionano per il “bene” del soggetto. Per cogliere i pensieri inconsci, è necessaria la loro interpretazione. Questo ci autorizza anche a prendere una posizione decisa per non incoraggiare nessuno, tanto meno un bambino, a prendere una decisione così fulminea come questa, nemmeno la meno grave, quella dell’ormonizzazione, perché i suoi effetti sono irreversibili.

Perché questa legge insiste tanto sui giudici se è assodato che le leggi devono essere umanizzate dai giudici in modo che non sia una legge ferrea, cioè superegoica? Sarebbe molto strano, anche se non impossibile, che i giudici proteggano i bambini da certe idee dei genitori, la legge li chiama responsabili, nel caso in cui, in nome dell’amore e del fare del bene ai propri figli, di realizzare i loro presunti desideri, non diano loro il tempo di maturità necessario (così dice la legge) per prendere quelle decisioni.

Perché la fretta di questa società dell’immediatezza che non dà tregua ai bambini per far loro assumere la loro posizione di soggetti responsabili e permettere loro di vedersela con le loro angosce, il loro vuoto, passare attraverso le loro domande, i loro capricci, la loro posizione davanti alla lalingua che li tocca e di cui l’inconscio, in quanto interprete, è l’equivoco dominante?

Una legge che difenda i diritti degli individui è sempre buona e se si tratta di difendere i diritti dei bambini è ancora meglio, in un mondo globalizzato dove ci sono organizzazioni oscure che sono al servizio dei perversi e si muovono nel deep web per godere e far godere i bambini senza la sufficiente consapevolezza.

Coloro che sono in prima linea nell’ascolto psicoanalitico di alcuni bambini che domandano per la loro identità di genere, hanno avvertito «[…] che l’immagine del sesso funziona come un tentativo di soluzione, a volte riuscito, a volte fallito. Ma i soggetti fanno appello alla stessa cosa, sia come certezza, identificazione o asintoto: l’immagine del sesso permette loro di farsi un corpo. Aggiungono che, nella maggior parte dei casi, si può verificare la pregnanza del discorso sul genere, attraverso l’incontro con un analista, e in particolare – in quasi tutti – l’intervento chirurgico si presenta come una promessa di sollievo dalla sofferenza di chi afferma di appartenere a un sesso a cui il suo corpo non corrisponde. Indipendentemente dal fatto che questo si realizzi o meno, se nel corso del trattamento acquisisca o perda consistenza, la “soluzione” chirurgica, universale e prêt-à-porter, è lì presente»4.

Sosterranno ancora: «Con questo insegnamento clinico possiamo affermare che è compito dello psicoanalista mettere in discussione queste soluzioni che la civilizzazione promette e accompagnare ogni soggetto, che utilizzi o meno queste tecniche, a trovare un trattamento del godimento che gli sia sopportabile dai suoi tratti singolari, sostenuto in un legame soggettivo possibile».

Concludiamo con la prospettiva che di fronte alla sofferenza di ogni bambino, di ogni adolescente e delle loro famiglie, è necessario aprire la strada verso un legittimo ascolto del soggetto, una lettura dell’inconscio. Bisogna anche accettare il fatto che non voler conoscere nessuna particolarità, nessuna circostanza, nessun dettaglio, questo “non voler sapere” non è dell’ordine della repressione ma della forclusione: un godimento paranoico che parla esclusivamente in nome della legge e delle possibilità tecnico-scientifiche con specialità che traggono profitto da questa sofferenza. Per tutte queste ragioni dobbiamo continuare questo dibattito in cui non c’è solo la legge ma anche i giudici che ne sono gli interpreti, così come esiste l’inconscio, gli psicoanalisti e gli stessi analizzanti che ne sono gli interpreti.

Traduzione: Laura Storti

*Articolo pubblicato in Lacan Quotidien, 921, https://lacanquotidien.fr/blog/wp-content/uploads/2021/03/LQ-921.pdf

[1] Informes del Observatorio FAPOL “Género, biopolítica y transexualidad”, http://www.fapol.org/es/observatorios

[2] S. Tendlarz, Niños trans en Argentina, 2021, inedito.

[3] J.-A. Miller, e È Laurent, El Otro que no existe y sus comités de ética, Paidós, 2005, p. 73.

[4] Informes del Observatorio FAPOL.

Che cosa interpreta nella psicoanalisi?*

Inga Metreveli
Membro NLS, AMP, Mosca

Per una seduta di analisi, non esiste un criterio di successo o di precisione: si può solo dirne che ha avuto luogo. Ha avuto luogo se ha prodotto un certo effetto, che non può essere calcolato in anticipo. Spesso l’analizzante lascia la seduta senza la minima comprensione di ciò che è successo o chiedendosi se si è prodotto qualcosa. L’analista non dice nulla, seduto dietro il lettino fuori dal campo visivo dell’analizzante, con solo il suo respiro che indica la sua presenza. A volte si sente un altro suono: lo scricchiolio di una sedia, il clic dei tasti di una tastiera del computer, uno schiocco di dita, un sospiro, uno sbadiglio… e non una sola parola. In questo strano affare, la parola è lasciata all’analizzante sdraiato sul lettino, invitato a dire qualsiasi cosa gli venga in mente.

In effetti, all’inizio dell’analisi, molte idee vengono in mente, ma ben presto l’analizzante si scontra con il fatto che non può dire tutto. Inoltre, ha l’impressione di parlare sempre di qualcos’altro e di non riuscire a trovare le parole per dire la cosa. Dapprima attribuisce questo impossibile al tempo limitato della seduta prima di rendersi conto che dipende dalla struttura stessa del linguaggio e dalla propria parola. È infastidito dal fatto di non sapere quanto durerà la seduta, di non poter anticipare il momento in cui l’analista la interrompe, l’unico atto – il più delle volte – che compie.

La sua sofferenza è autentica e si sforza di trovare le parole giuste. Cerca le parole che possano farla sentire. Per “compiacere” il suo analista, cerca la parola sublime, farcita di concetti filosofico-scientifici, la formulazione impeccabile del suo pensiero per dire correttamente; porta volentieri numerosi sogni, che alimentano il suo discorso con materiale “già pronto” per la seduta. Ma più l’analisi progredisce, meno l’analista manifesta la sua presenza. Alla sofferenza, risponde con un eloquente “hum!”, sbadiglia ascoltando un’affascinante filippica quasi scientifica, si agita con impazienza sulla sua poltrona non appena appare un altro sogno trasparente e ben costruito. Infine, le sue parole, così rare, non si sentono là dove sono attese, e non arriva mai la risposta attesa. È tuttavia grazie a questo silenzio che l’analizzante si fa strada, che attraversa l’abisso dell’incomprensione, scala le montagne del proprio senso, e inevitabilmente cambia la struttura e il contenuto dei suoi enunciati.

A poco a poco, comincia a sentire quello che dice, soprattutto quando i suoi detti gli sfuggono, ed è proprio qui che la parola dell’analista produce il suo effetto. Non è solo una questione di lapsus o di denegazione, per esempio quando si racconta un sogno, il dettaglio non sfugge all’analista, che si limita ad essere il custode delle formazioni dell’inconscio. Si scopre che l’essenziale è sempre a portata di mano, sotto lo sguardo di tutti, alla maniera della “lettera rubata” di Allan Edgar Poe. Allora l’analista – è la sua posizione che in quel momento lo permette – estrae dalla parola dell’analizzante, dal libero flusso di significanti, gli elementi cruciali che si ripetono, che si ripetono all’insaputa dell’analizzante, poiché egli stesso non sa chi sta parlando.

«Dice che tutte le donne sono stupide, stupide come animali?» dice infine l’analista con tono scontroso.

Bene, ecco fatto! La frase, detta più volte in contesti diversi, diventa improvvisamente convessa e luminosa come un’insegna al neon. Lo stupore priva l’analizzante della sua parola, la seduta è interrotta su questo vibrante silenzio.

L’equivoco basato sull’omonimia è diventato possibile grazie al passaggio dalla lingua madre al campo della lingua dell’esperienza analitica. Esso blocca l’automaton della parola, tutti i discorsi magniloquenti crollano come un piumaggio incolore, lasciando apparire, dopo essere caduti, un’ossatura dal contenuto ridicolo. L’equivalenza donna-bestia1, fusa nella catena ordinata dei significanti della lingua madre, è ormai sottolineata e messa in corsivo nel testo prodotto dall’inconscio: non può più essere occultata, né la sua assurdità può essere nascosta dietro i significanti. La cosa sorprendente in questo caso è che l’effetto non è prodotto dall’incontro con un’altra significazione che genererebbe un giubilo, che segnerebbe la riscoperta di un “vero senso”, di una verità che ci permetterebbe di esclamare: «Ah! Questa è la risposta giusta!» Quindi da dove viene questo effetto?

Effetto di non-senso

Prima di affrontare gli effetti di questo intervento, possiamo chiederci chi interpreta. «Senza dubbio siamo stati troppo affascinati dallo speech-act dell’analista»2; attribuiamo ai suoi rari enunciati lo statuto di una vera interpretazione, gli si suppone un sapere particolare sul suo analizzante. Nel caso in questione, se ci atteniamo al livello del senso, lo psicoanalista utilizza solo un sapere linguistico. Non traiamo la falsa conclusione che l’interpretazione sarebbe un linguaggio particolare dell’analista, il suo metalinguaggio che si aggiungerebbe agli enunciati dell’analizzante.

Al contrario, è il prodotto dell’inconscio che, strutturato come un linguaggio, è al lavoro del «fare allusione, fare silenzio, fare l’oracolo, citare, fare enigma, dire a metà, rivelare»3 – in altre parole, non fa che interpretare, cifrare e decifrare. Una tale concezione dell’inconscio-interprete può essere accostata al lavoro del delirio quando l’incontro di un significante S1, enigmatico perché senza una significazione prestabilita, innesca la ricerca di un significante S2, capace di dare senso al primo. Bene, in questo laboratorio di produzione del sapere, l’inconscio non ha eguali; non ha bisogno dell’altro, analista compreso. Ecco perché gli interventi dell’analista rischiano di generare un nuovo flusso di S2, al servizio del processo illimitato di cifratura. Infatti, un certo significante, generosamente offerto dall’analista, potrebbe anche iscriversi nel sistema perfettamente funzionante dell’inconscio, che, nel migliore dei casi, lo inghiottirebbe.

Ma come allora, in questa prospettiva, si può ostacolare la produzione perpetua di senso che l’inconscio realizza? La parola dell’analista, anche se dà un’altra lettura dell’interpretazione dell’inconscio, non fa che allargare la tela delle significazioni. Se il significante S2 è inadatto ad asciugare l’elaborazione di senso, sta solo all’analista il fatto di «trattenere S2, di non aggiungerlo al fine di circoscrivere S1. Questo è per riportare il soggetto ai significanti propriamente elementari sui quali, nella sua nevrosi, ha delirato»4. Il suo compito è dunque quello di isolare il significante dall’interpretazione prodotta dall’inconscio, di liberarlo da ogni significazione; cioè, invece di aggiungere senso, l’analista taglia il rapporto S1-S2, operazione che sottrae senso.

Quali sono le conseguenze di questa sottrazione? La fuga del senso non va trascurata perché permette un incontro con ciò che questo senso localizza e definisce: il godimento, attaccato a questo significante unario, che sussiste da solo, al di fuori di qualsiasi semantica. Così l’obiettivo dell’atto analitico non è la riformulazione riuscita del sapere inconscio, ma la rivelazione di questo godimento.

Da questo punto di vista, la perplessità che sorge in seguito al detto dell’analista permette già di constatare il taglio che è stato prodotto, il cui risultato è stato la liberazione del significante.

Donna…

Cosa ha operato grazie all’intervento dell’analista?

In primo luogo, esso mette in dubbio l’assioma Tutte le donne sono stupide, fa vacillare il suo senso radicato e inconscio. Infatti, la frase, che proviene dal discorso dell’Altro genitoriale, è stata ingoiata, intera e cruda, e l’analizzante l’ha fatta passare nel suo discorso come verità originaria.

In secondo luogo, l’intervento introduce un taglio nell’enunciato ermetico, liberando il significante S1 “donna” dal significante S2 “bestia”. In altre parole, questo isola S1 attraverso l’incisione del suo legame cavo e pseudo-logico con S2.

In terzo luogo, questa interpretazione non apporta nessun nuovo significante semantico rispetto alle donne: è la stessa parola “bestia” che viene scoperta, grottesca e insensata, nelle sue due significazioni in francese.

In quarto luogo, l’affermazione dell’analista prende di mira e colpisce il godimento incluso in questa frase, godimento finora attribuito all’Altro che ne sarebbe stato l’autore. La prova è che l’intervento produce un affetto complesso a livello del corpo, allo stesso tempo vergogna, indignazione e riso. È allora che l’analista fa un secondo intervento, tagliando la seduta: un’altra forma di taglio, un atto che «riconduce il soggetto all’opacità del suo godimento» – «Questo suppone che prima di essere chiuso, venga tagliato»5.

Invece di comprendere, per esempio, l’origine di questa idea e rilanciare, di nuovo, il racconto delle contraddizioni del discorso dell’Altro materno, l’analista interrompe la seduta. Per dirlo in un altro modo, non sostiene la parola che può far gonfiare l’immaginario, il che offre al soggetto la possibilità di confrontarsi con la propria impasse e con il nonsenso.

Grazie all’incisione nella catena significante, si scopre l’impasse, poiché se l’assioma è vero, l’analizzante si ritrova di fronte all’impossibile di appropriarsi di questo significante – essere bestia/stupida. In seguito al taglio di questo legame fantasmatico, il sollievo arriva al posto dell’indignazione e della vergogna: con l’impasse, l’operazione di taglio indica anche la possibilità di uscirne con l’uso del significante donna, privato del suo predicato, donna-…

Il possibile femminile

Estrarre questo significante, isolare il suo statuto particolare, apre alla questione del femminile. Di conseguenza, il rilancio del lavoro analitico, il fallimento del sapere che ha creato uno spazio vuoto, un’apertura che rende necessaria l’elaborazione di un significante nuovo.

La catena significante ricomincia, con una nuova elaborazione di senso nel tentativo di dare risposte al posto vacante del sapere – le donne sono “imprevedibili”, “astute”, “complicate”, “non si capiscono”, ecc. – illustrando una delle scoperte fondamentali di Lacan sulla donna “non-tutta” perché manca sempre un significante per designarla. Questa mancanza, se si oppone a definire il suo essere, a completarne la sua definizione, apre tuttavia delle possibilità.

E l’analista tace di nuovo, così che, come nella maggior parte delle sedute, l’inconscio-interprete possa cogliere queste possibilità. «“Non dice niente?” Senza dubbio. Tacere è il male minore in questo caso. Perché interpretare è tutto ciò che l’inconscio ha sempre fatto, e lo fa meglio, di regola, dell’analista. Se l’analista tace, è perché l’inconscio interpreta.»6

Infatti, l’inconscio interpreta e le sue interpretazioni sono autonome e piene di senso. Le formazioni dell’inconscio offrono una serie di significanti al posto dell’S2 destituito: donna fallica, donna asessuata, donna-madre, donna di un uomo, donna che gode, donna che soffre, donna seduttrice, donna castrata… Ogni invenzione dell’inconscio pretende di essere vera. Finché l’incontro casuale con il non-senso della sua costruzione non svela l’incompletezza di questa verità. Tuttavia, la sua incompletezza non significa che sia falsa, non veritiera: tutte queste versioni del femminile sono vere e false allo stesso tempo. Questo permette di servirsene, a condizione di farne a meno.

Traduzione: Adele Succetti

*Articolo pubblicato (in francese) in Lacan Quotidien, n. 889, 16 maggio 2020, disponibile qui: https://lacanquotidien.fr/blog/2020/05/lacan-quotidien-n-889/

[1] In francese, bête significa sia bestia che stupido/a.

[2] J.-A. Miller, L’interprétation à l’envers, “La Cause freudienne”, 32, février 1996, p.5.

[3] Ibidem.

[4] Ivi, p. 7.

[5] Ibidem.

[6] Ivi, p. 6.

Umberto Eco e i limiti dell’interpretazione

Sergio Sabbatini
Membro SLP e AMP – Roma -maggio 2022

 

Il problema dell’interpretazione è al centro della ricerca di Umberto Eco sin dal 1962, con Opera aperta. Come si interpreta un testo? Qual è il ruolo dell’interprete? E che rapporto c’è tra autore, lettore e testo?

Va chiarita la dialettica tra i diritti del testo e i diritti di chi voglia interpretarlo, scrive Umberto Eco. Con la clausola che nel leggere il testo bisogna moderare la fuga del senso, la semiosi illimitata di Peirce. Questi, essenziale riferimento di Lacan, ha chiarito che per interpretare un segno, che sia naturale o artificiale, sono necessari altri segni. Il che innesta un processo ricorsivo, potenzialmente infinito.

Bisogna quindi trovare un modus, dei criteri per arrivare a una interpretazione ben definita: l’interpretare non può essere solo arbitrario, non si può giustificare qualsivoglia atto interpretativo. Eco propone un esempio stuzzicante: Jack lo Squartatore non può giustificare le sue azioni sulla base della sua interpretazione del Vangelo secondo Luca. Conclusione: non ogni interpretazione è plausibile1.

Una teoria dell’interpretazione di un testo, dice Umberto Eco – e ‘testo’ ha un’accezione ampia, comprende anche il mondo come testo, vedi Galileo – deve considerare tre prospettive diverse:

  1. L’interpretazione reader-oriented, l’intentio lectoris, l’intenzione del lettore.
  2. L’interpretazione che ricerca l’intenzione originale dell’autore, l’intentio auctoris.
  3. L’interpretazione che ha di mira l’intenzione del testo, l’intentio operis.

L’intenzione del testo non viene esibita dalla superficie testuale, scrive Eco, se non al modo della lettera rubata: il lettore deve fare una qualche congettura per vederla. Un testo sarebbe un congegno che prevede un Lettore Modello in grado di fare congetture su come leggerlo, non necessariamente l’unica giusta. Se l’intenzione dell’autore può risultare inattingibile e quella del lettore discutibile, dovrebbe essere l’intenzione del testo a smentire un’interpretazione insostenibile.

Su questa terna di intenzioni si muove il lavoro di Umberto Eco negli anni 80 e 90. Mi sono chiesto, quasi per gioco, se è possibile ritrovare sul tema dell’interpretazione in psicoanalisi Umberto Eco, un autore amato da Lacan. Con lo stesso spirito abbozzo qualche linea di lettura. Che pertinenza possono avere in psicoanalisi l’intentio operis, l’intentio auctoris e l’intentio lectoris?

Intanto è una tripartizione che offre una chiave di lettura più sofisticata delle teorie ingenue dell’interpretazione, di tipo metalinguistico. Se il sintomo è solo una metafora che sciolta dall’interpretazione rivela il significato nascosto all’analizzante, viene elusa la dimensione pulsionale, quel resto che sfugge al senso, viene celata la verità mentitrice. Chi sarebbe qui il lettore modello? Non affrettiamoci a dire lo psicoanalista, se in analisi il soggetto al lavoro è l’analizzante e l’analista è in posizione di oggetto. Però è l’analista a regolare il quadro del lavoro, a operare una diagnosi differenziale che decide sulla direzione della cura. E l’unico desiderio che lo legittima come analista, il desiderio dell’analista, è alla base della cura. Se è l’analista a dare il quadro, se il suo desiderio è il motore della psicoanalisi, se il desiderio è la sua interpretazione, allora deve darsi una cooperazione interpretativa tra analista e analizzante. E il testo mantiene i suoi diritti, dal momento che Jacques-Alain Miller ha rivelato il rovescio dell’interpretazione, il ruolo attivo dell’inconscio nell’interpretare. Il testo è quanto mai accidentato, si sovrappongono inconscio trasferenziale, aperto all’interpretazione e inconscio reale, letteralmente fuori-senso.

Rivolgiamoci al sogno, il cui testo esplicito, il contenuto manifesto di Freud, rinvia al contenuto latente. È semplicemente una metafora? In realtà sappiamo che il sogno è stratificato, che condensa desideri preconsci e desiderio inconscio. Chi è l’autore e quali sono i criteri che autorizzano l’interpretazione? E tra autore e interprete perché non assegnare la posizione decisiva all’inconscio reale, che detiene i diritti del testo?

C’è un’altra direttrice di Eco che voglio richiamare, rinvio ancora alle Tanner Lectures del 19902, il tema della ragione nel pensiero occidentale3. Eco ne individua tre direzioni.

Dal razionalismo greco, che fonda la conoscenza vera nella comprensione delle cause, deriva il pensiero logico e matematico moderno: i cui cardini sono i tre principi logici – di identità, di non contraddizione e del terzo escluso – e il modus ponens come modello di ragionamento. Il razionalismo latino mette al centro il modus del modello giuridico: est modus in rebus è il principio logico ed etico di Orazio. Il modus diventa il limite, il confine, la soglia, nello spazio e nel tempo. Ci sono processi irreversibili: alea iacta est, dice Giulio Cesare. Ciò che è stato fatto può essere modificato ma non cancellato, scrive Tommaso4.

Ma insieme al razionalismo si muovono altre due correnti: la prima è il pensiero ermetico, che nega i principi logici e sovverte le catene causali: il dopo può precedere il prima, possono essere vere cose contraddittorie tra loro. La verità è enigmatica, celata nelle allusioni e nelle allegorie, il messaggio di un testo è sempre misterioso e per coglierlo bisogna rivolgersi a un sapere esoterico, oracolare, che si mostra nelle visioni e nei sogni. La rivelazione è sempre inedita, inaudita e rinvia a una verità segreta, profonda, ignota, nascosta sotto la superficie. Può essere rimasta ignota per secoli. Ma allora la verità di un testo non è quello che dice ma qualcosa che dice oscuramente, in modo cifrato o addirittura quello che non dice.  Se per il razionalismo una cosa è vera se può essere ricondotta a una concatenazione logica e causale, per l’ermetismo il vero sfugge alla spiegazione logica. Come in un gioco di specchi un elemento del testo del mondo rinvia ad altri elementi, l’interpretazione è indefinita. Trionfa lo slittamento, la deriva del senso, non c’è significato ultimo, non c’è punto di capitone.

Alle tradizioni razionalista ed ermetica si aggiunge infine quella gnostica che radicalizza l’ermetismo per concludere che se il senso slitta indefinitamente allora non c’è verità ultima nel mondo. L’uomo gnostico custodisce una scintilla divina e si ritrova gettato, esiliato in un mondo estraneo: la sua esistenza è una malattia, il suo proprio corpo una prigione.

L’eredità ermetica sembra nutrire il relativismo contemporaneo; l’eredità gnostica traspare in diversi momenti del pensiero occidentale: il catarismo, l’amore cortese, il romanticismo, fino all’esistenzialismo del Novecento. Sul tema dell’interpretazione conducono a una conclusione che fa eco al discorso psicoanalitico: “Vero Lettore è chi capisce che il segreto di un testo è il suo stesso vuoto.” Un’intuizione abissale che sembra risuonare con lo svanimento del senso di fronte al potere della pulsione, del godimento.

Con l’effetto di verità dell’interpretazione che rimanda a un vuoto assoluto, che il significante tenta di cingere, come in un anello del nodo borromeo.

[1] U. Eco, Interpretazione e sovrainterpretazione, Bologna, Bompiani, 1995, p.34.

[2] Ibidem.

[3] Sulla nascita del pensiero scientifico con la rivoluzione ellenistica di Euclide, Archimede e tanti altri è fondamentale il libro di Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata, Milano, Feltrinelli, 1996.

[4] U. Eco, Interpretazione e sovrainterpretazione, pag.   “Nella Quaestio quodlibetales [V.2.3] Tommaso si chiede «Utrum Deus possit virginem reparare», e la risposta è che Dio può ridarle l’integrità fisica ma non può far sì che ciò che è stato non sia stato, perché sarebbe una violazione delle leggi temporali contraria alla sua natura. Dio non può violare il principio logico secondo cui «p è accaduto» e «p non è accaduto» apparirebbero come contraddittori. Alea iacta est.

Rubrica: La psicoanalisi tra le righe In nome di chi?

In nome di chi?

Pasquale Indulgenza
Membro SLP e AMP – Bologna – maggio 2022

 

La Corte Costituzionale Italiana ha recentemente accolto la richiesta di una coppia che chiedeva di potere trasmettere al proprio figlio il cognome di entrambi i coniugi. La sentenza ha avuto una notevole risonanza nei media anche se, il più delle volte, si è mancato di cogliere il rivolgimento che la sentenza introduce e che non consiste semplicemente nell’avere accolto la specifica richiesta dei coniugi che hanno promosso la richiesta – il doppio cognome.

In effetti, in un limpido italiano, la suprema Corte ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono l’automatica attribuzione del cognome del padre, con riferimento ai figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio e ai figli adottivi». (Comunicato del 27 aprile della CC).

Ne consegue che saranno i coniugi a scegliere quale cognome trasmettere: quello del padre, di entrambi o della madre.

Il venire meno dell’automatismo patrilineare nella prosecuzione della stirpe è un fatto epocale che non può non colpirci. L’avventura del padre di famiglia, quello moderno che tutti conosciamo, si conclude qui. Salito sulle scene nel 1804 con la promulgazione del codice napoleonico ( matrice del codice civile di molti paesi, compreso il nostro), il padre della famiglia coniugale – anch’essa sancita dal codice napoleonico – è colui che ha garantito la forma moderna delle leggi dell’alleanza che tanto hanno interessato Lacan negli anni ’50 del secolo scorso (si veda, per tutti, Funzione e campo della parola e del linguaggio). All’epoca Lacan considerava che all’imperatività dell’automatismo della trasmissione patrilineare fondata sul padre della legge  corrispondesse quella inconscia – a condizione, beninteso, che  vigesse la legge dell’Edipo.

Del padre della legge si farà beffe, come è noto, James Joyce, reputandolo una finzione legale. I giuristi non si sarebbero certo stupiti di questa affermazione, così come non ce ne stupiamo noi potendo distinguere, grazie all’ultimo insegnamento di Lacan, il padre del diritto – della finzione – dal padre dell’amore, il padre della p(at)erversione.

È proprio perché non credeva nel padre dell’amore che Joyce coglieva lucidamente la finzione del padre del coniugo che, con questa ultima sentenza, è ormai definitivamente fuori gioco. D’altra parte si trattava soltanto di porre una parola ultima al processo di sgretolamento della famiglia coniugale iniziato negli anni ’70, dei cui esiti troviamo il “riassunto”, per così dire, in quello che la Corte scrive nel definire l’ambito di applicazione della sentenza: «con riferimento ai figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio e ai figli adottivi». Insomma, quello che conta è il figlio e, come scrivono i giuristi, il suo status è unico, indipendente dal rapporto con la coniugali.

Possiamo dire che la sentenza della corte non ci coglie impreparati. Lacan ci ha insegnato da tempo che la filiazione è un processo prodotto dal figlio; ed è a partire dai modi con cui il figlio notifica la sua “affiliazione” che ci regoliamo per la pratica dell’interpretazione, tema a cui è dedicato il prossimo convegno della Slp.

Ma cosa ne è oggi delle leggi dell’alleanza? Se, come, per chi producono degli effetti? In nome di chi  ci si iscrive in una stirpe?

Un buon tema per una giornata di studio.