“L’uomo […] è piuttosto un animale che vive in orda, un essere singolo appartenente a un’orda guidata da un capo supremo”

Sigmund Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io, Opere Sigmund Freud, vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino 1977, p. 309.

Responsabile: Laura Storti – retelacan@gmail.com
Redazione: Eva Bocchiola, Sergio Caretto, Adele Succetti, Sebastiano Vinci, Giuliana Zani
Grafica a cura di: Matteo De Lorenzo
Per il sito: Omar Battisti

Sommario

Rete Lacan n°45 – 4 luglio 2022

in copertina:
Banksy, Mona Lisa with a bazooka, stencil 2017

Editoriale

Laura Storti – responsabile Rete Lacan – Presidente SLPcf

In questo numero 45 Rete Lacan riprende il tema della guerra. Una guerra iniziata a febbraio che continua a produrre morte e distruzione, senza che si scorga quel minimo di condizioni perché possa cessare nel breve, mentre tante altre guerre continuano a devastare questo nostro pianeta. Ce ne scrive qualcosa Sebastiano Vinci nel suo testo Le guerre dimenticate, ricordandoci l’esodo infinito di quante e quanti fuggono dai loro paesi, da altre guerre, dalla fame e dalla povertà, con il sogno di una vita migliore. Migranti sottoposti a una crudele prigionia, in balia di un mare assassino, respinti, discriminati, costretti a una vita di marginalità in paesi che li considera indesiderati.

Parlare di guerra utilizzando ciò che J. Lacan ci insegna significa essere avvertiti che a nulla valgono gli appelli alla ragionevolezza piuttosto che il timore verso la sua carica distruttiva. Il testo di Joaquín Caretti Il godimento della guerra, ci ricorda non soltanto come la guerra è commercio, business dei grandi produttori di armi, generatore di ricchezza, quindi indispensabile al Discorso del capitalista. Ma anche che la guerra è parte integrante del legame sociale.

Ondina Machado nel suo contributo La guerra: femminile, singolare,  s’interroga su cosa ci sia di femminile nella guerra. Fa quindi, un escursus attraverso le guerre nei Paesi dell’Est a partire dal libro di Svetlana Alexievich, prendendo in considerazione la posizione femminile all’interno di queste.

Abbiamo inoltre, il contributo di Annalisa Piergallini: Guerra, gerarchia e salute mentale, che lega un ricordo familiare “di guerra e di fede nella gerarchia” con la letteratura. I testi presi in esame sono il racconto autobiografico di Giuseppe Berto, scrittore italiano poco conosciuto e sostenitore del regime fascista e quello di Joseph Heller, con il suo “romanzo tragico e comico, che critica in modo satirico la guerra e la gerarchia militare”.

Infine un Lampo, quello di Omar Battisti: Tra le righe: “E noi come stronzi rimanemmo a guardare”, prendendo a prestito il titolo del film di PIF, apre a una riflessione sullo studio degli algoritmi e mette bene in evidenza come colui che viene schiavizzato altro non è se non colui che li ha inventati.

Colgo l’occasione per ringraziare la Presidente Loretta Biondi e il Consiglio uscente per aver ideato e voluto l’a-periodico della SLPcf Rete Lacan, nato in un momento, possiamo dire, di grande sconforto e paura: l’insorgere della pandemia Covid-19. Ma che quasi subito da questa contingenza si è voluto smarcare.

Siamo stati il primo paese europeo ad essere stato colpito da un virus che ha portato a quasi sette milioni di morti in tutto in mondo e che ha cambiato fortemente le nostre vite, il nostro lavoro, il legame di Scuola. Un momento di crisi che come sempre accade apre anche a opportunità: tra le altre, questo stesso strumento editoriale, che ci ha messo in collegamento con le altre riviste online e ha rafforzato scambi e legami con le altre Scuole dell’AMP.

Ringrazio la redazione: Eva Bocchiola, Sergio Caretto, Adele Succetti, Sebastiano Vinci, Giuliana Zani e Matteo De Lorenzo, prezioso ideatore delle copertine e della grafica. Con tutti voi ho svolto un lavoro impegnativo, intenso (45 numeri in poco più di due anni)  e allo stesso tempo piacevole. Un lavoro di Scuola appassionante, che porterò con me nei miei ricordi.

Passo il testimone ad Adele Succetti che ricoprirà la funzione di Responsabile di Rete Lacan per il biennio 2022-24 e alla quale porgo i miei più sinceri auguri, sicura che gestirà al meglio il suo nuovo incarico.

Buon lavoro e buona lettura.

Le guerre dimenticate

Sebastiano Vinci – membro SLP e AMP – Palermo – giugno 2022

In uno scritto del 1932, intitolato Perché la guerra? Freud, nel rispondere ad alcune domande rivoltegli da A. Einstein in occasione del dibattito promosso dall’Istituto internazionale per la cooperazione intellettuale, nel riprendere concetti già esposti in alcuni suoi scritti precedenti, entra nel merito, brevemente, del rapporto tra diritto e potere. «Posso sostituire la parola potere» – scrive Freud – «con la parola più incisiva e più dura violenza? (…) I conflitti d’interesse tra gli uomini sono dunque in linea di principio decisi mediante l’uso della violenza»[1]. Passaggio quanto mai  attuale, questo, che ci vede costretti a sperimentare tutta l’impotenza di fronte all’orrore di una guerra, oggi al popolo ucraino, mossa da una di quelle figure dittatoriali che nel Putin di turno, già allora, Freud, aveva ben intravisto il godimento di chi soggiace alla propria soddisfazione pulsionale mortifera che risulta essere dell’ordine della ripetizione, dato che «Il prossimo personaggio che si ritenesse più forte ambirebbe di nuovo a dominare con la violenza, e questo stesso giuoco si ripeterebbe all’infinito»[2]. La guerra in Ucraina, ha in fondo, mostrato l’orrore della pulsionalità umana, della resistenza a qualsivoglia intento civilizzatore della sete di sopraffazione e di dominio che Putin ha dimostrato di sapere ben rappresentare in quei teatrini delle apparenze costituiti delle enclave di potere politico internazionali, impotenti ed incapaci, di prendere qualsivoglia decisione, mentre la gente, una per una, con i propri nomi, storie e desideri, viene falcidiata da colpi di mitraglie, da bombe ai supermercati o fin dentro le loro case.  Benché se ne parli – mai troppo! – l’aspetto soggettivo, la vista di ogni singolo cadavere per strada o nelle fosse comuni, qualsiasi dettaglio umano, di ciò che resta dell’umano, rimane distante da noi. Si è più attenti ed interessati a ciò che può rappresentare questa guerra per noi, in termini di privazioni e restrizioni al nostro sistema capitalistico, piuttosto che volgere lo sguardo ai brandelli di ciò che resta di un corpo umano martoriato dalle bombe. Così,  mentre ci si affanna a discutere di misure da adottare per limitare il pericolo di una recessione economica, si cercano modi alternativi di approvvigionamento dei beni di cui una società capitalistica non può più fare a meno, mentre a Mariupol si trovano sempre più fosse comuni con quel che resta di umano, il Mediterraneo continua a riempirsi di tombe senza nomi, di corpi lasciati a sciogliersi in acqua perché non raccolti e dimenticati, di vecchi, giovani e bambini che fuggono da guerre, talvolta con meno tuoni di cannoni, ma altrettanto violente e distruttive di quella voluta dal dittatore russo, fuga da guerre che non portano con sé solo l’odore della polvere da sparo, ma anche quello della malnutrizione, della miseria economica, delle conseguenze di politiche coloniali che hanno solo privato dei beni e delle risorse che appartenevano al territorio ed alle popolazioni africane,  della deprivazione di tutto ciò che per noi occidentali, oggi risulta essere il superfluo, l’inutile, il rifiuto. Ciò che noi riteniamo non essere più all’altezza della soddisfazione “dell’ancora di più… dell’ancora di più… dell’ancora di più”, per intere popolazioni africane, rappresenterebbe la possibilità di raggiunge un tenore di vita sufficiente a salvare migliaia di uomini, non costringendoli, necessariamente, a lasciare il proprio Paese. Così, è uno strano destino quello che accomuna, anche se a migliaia di chilometri di distanza, la popolazione ucraina da quella africana. Entrambe, senza forse saperlo, fuggono dall’odio di chi ha creduto di poter disporre delle loro vite per soddisfare una pulsione di morte che, nella bulimica ricerca della fallace soddisfazione, è incapace di rendere umano quel corpo che lo rappresenta.

[1] S. Freud, Perché la guerra? (1932), in OSF, vol.11, Torino, Boringhieri, 1982, p.293.
[2] Ibid., p.294.

Il godimento della guerra*

Joaquín Caretti – membro ELP e AMP – Madrid – maggio 2022

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha scatenato una guerra in Europa che non sappiamo ancora come si risolverà o se sarà limitata al territorio ucraino. La ferocia impiegata nell’invasione e la resistenza non meno tenace mi portano a riflettere sul fenomeno della guerra e se si possa fare qualcosa per evitarla.

Ogni guerra attualizza la domanda freudiana Perché la guerra?. Freud rispose con la sua interpretazione che la civiltà richiedeva agli uomini sforzi eccessivi e li faceva vivere al di sopra delle loro possibilità. Civilizzare è ciò che potrebbe fermare le guerre, ma un eccessivo contenimento delle pulsioni favorirebbe lo scatenamento della guerra. Qual è dunque la giusta misura di questo paradosso, dove ciò che frena è ciò che provoca?

Nel 1957, Jacques Lacan, parlando del posto del cavallo nella storia della guerra, dice qualcosa di sorprendente: «[…] il cavallo è stato effettivamente qualcosa di assolutamente essenziale per quel commercio interumano chiamato guerra»[1]. La guerra definita come commercio, la guerra come business dei grandi produttori di armi, la guerra come generatore di ricchezza.

Allo stesso tempo, in un libro molto interessante intitolato La psicoanalisi al tempo della guerra[2], si afferma che la guerra è una parte costitutiva del legame sociale, cioè è una parte costitutiva del discorso. Questa affermazione – insieme a quella di Lacan – non è superflua, poiché la guerra è solitamente vissuta come qualcosa che non appartiene al legame sociale, qualcosa che è fuori, che distrugge i legami e installa la morte, qualcosa da evitare o da estirpare dal mondo. Tuttavia, la guerra fa parte del discorso perché senza questo non ci sarebbe. La guerra ci circonda, si infiltra nelle nostre vite come parte dell’aria che respiriamo, siamo figli della guerra, delle conquiste, delle invasioni, della sottomissione dell’altro. Non c’è mai stato un’epoca dell’umanità in cui la guerra non sia stata presente. Cerchiamo di opporci alla sua normalizzazione lottando contro di essa, ma la guerra trionfa sempre. Non c’è civiltà senza guerra. La pace, apparentemente tanto desiderata dall’umanità, è solo lo spazio tra due guerre. Pensare a una pace perpetua, come fece Kant che propose un programma di pace da attuare da parte dei governi dell’epoca, significa ignorare, in qualche misura, la soggettività umana e la violenza che si manifesta nei legami sociali. È come sperare di porre fine al crimine. Ciò che è veramente perpetuo è la violenza.

Qualcosa viene distrutto e qualcosa viene creato. Il nostro tempo non è diverso. Né la terribile esperienza delle due guerre mondiali, né la Shoah, né il sistema delle Nazioni Unite possono farci pensare che sia possibile porre fine alla guerra. La diffusione della democrazia e dello Stato di diritto – basati su controversie e confronti risolti attraverso il dialogo e il voto – potrebbe indurci a credere che le democrazie non facciano la guerra. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Ricordiamo, ad esempio, il Vietnam, l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia, i Balcani…

Freud ne Il disagio della civiltà afferma che l’inclinazione aggressiva, in quanto espressione della pulsione di morte, è una disposizione pulsionale autonoma e originaria dell’essere umano in cui la cultura trova il suo ostacolo più potente. La guerra è l’espressione nel sociale dell’intima soggettività umana, rendendo vera l’affermazione che la psicologia individuale si incarna nella psicologia sociale. Non si può pensare all’una senza l’altra. Ciò che facciamo nel sociale sarà influenzato, ordinato, dalla nostra posizione fantasmatica inconscia. La guerra non sfugge a questo aspetto. La guerra è sostenuta da un discorso, il discorso la scatena, la fonda, la giustifica, la organizza. Questo, dunque, ci fa vedere qualcosa di impensabile o difficile da accettare: che la guerra è inclusa nel legame sociale, che fa parte del legame tra gli esseri umani. Distrugge il legame sociale con il nemico, ma costruisce legami con amici e compagni e crea, inventa, come sottolinea Lacan nel suo testo La psichiatria inglese e la guerra: «(…) la guerra ha trasformato la psichiatria in Inghilterra. In questo come in altri campi la guerra si è dimostrata levatrice di progresso all’interno della dialettica essenzialmente conflittuale che a quanto pare caratterizza la nostra civiltà»[3].

La guerra cerca di sterminare il nemico, ma provoca legami fraterni e identificazione con chi sta dalla stessa parte. È l’esempio estremo della fraternità come causa di violenza segregante, rivolta all’altro e all’odio verso il diverso. La guerra cerca di far scomparire l’altro che la affronta, cerca di sottometterlo, di dominarlo, di possedere i suoi beni, siano essi materiali o umani. La guerra è l’esaltazione della morte. Il godimento che questo genera nei combattenti è ciò che spiega in parte perché gli uomini vanno in guerra senza lamentarsi, sapendo di poter morire. È qui che il discorso interviene per ottenere le identificazioni necessarie alla guerra. Il superio fa sentire la sua presenza. Sia per la via freudiana del senso di colpa per non aver adempiuto agli obblighi richiesti dalla patria, dal re o dall’ideologia, sia per la via lacaniana di una esigenza di godimento con la morte, con l’uccidere o il morire dove non ci sono più limiti morali. L’uomo liberato dai limiti della civiltà dove, come sottolinea Lacan, «le potenze oscure del superio si coalizzano con i più fiacchi cedimenti della coscienza per condurre gli uomini a una morte che viene accettata per le cause meno umane. Non tutto ciò che appare come sacrificio è per ciò stesso eroico»[4].

La guerra è un atto molto umano: gli animali non organizzano guerre. Si potrebbe dire che non c’è nulla di più umano della guerra. Da sempre si sono organizzati eserciti e la guerra è stata resa un’arte e persino una scienza. La guerra ha leggi che la regolano e convenzioni, come le quattro Convenzioni di Ginevra (1949), che devono essere rispettate e che sono state concordate per limitare la crudeltà nei confronti dei soldati feriti e catturati e per proteggere la popolazione civile.

Molto, moltissimo è stato scritto sulla guerra: storia, saggi, romanzi, opere teatrali, poesie, cronache, articoli di giornale. Tra i principali saggi, ricordiamo L’arte della guerra di Sun Tzu del VI secolo a.C. o il testo di Machiavelli Sull’arte della guerra del 1520 o il famoso libro di Carl von Clausewitz Sulla guerra del XIX secolo dove si afferma che «La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi» considerando la guerra come un atto politico. Anche quattro poemi agli antipodi del tempo: L’Iliade e l’Odissea di Omero nell’VIII secolo a.C. o La Spagna nel cuore di Pablo Neruda o Tristi guerre di Miguel Hernández. Sono stati girati innumerevoli film sulle principali battaglie o episodi di guerra e sono stati scritti innumerevoli libri di storia sulle diverse guerre. La guerra produce un effetto di fascinazione da cui lo sguardo viene catturato.

La guerra e la civiltà non funzionano come opposti, ma si articolano in un fine comune che è il soddisfacimento delle pulsioni, ma si differenziano per le modalità con cui lo raggiungono. Le pulsioni giocano la loro eterna battaglia che nessun sistema è riuscito a placare definitivamente.  Esiste un’insolubile interdipendenza tra il legame sociale e la violenza della guerra. Non c’è l’uno senza l’altra.

D’altra parte, se non c’è il corpo non c’è la guerra. Anche in questi tempi in cui la guerra è sempre più condotta con mezzi telecomandati, quando arriva il momento di occupare un territorio, il corpo deve esporsi. Questo è ciò che abbiamo visto nell’invasione dell’Ucraina, dove la guerra si combatte casa per casa. E dove c’è un corpo c’è godimento.

Come mai i soggetti accettano la possibilità di sacrificare la propria vita? Non solo di fronte a un’emergenza che li spinge a difendere il territorio dall’invasione, ma ci sono esseri umani che dedicano la loro intera esistenza a sostenere le macchine militari di cui sono dotati tutti i Paesi del mondo, tranne 15 che non hanno un esercito. È il miglior esempio dell’articolazione tra guerra e civiltà. Rendono effettivo il detto «se vuoi la pace, prepara la guerra» dello scrittore romano del IV secolo Vegezio nel suo trattato militare Epitoma rei militaris. Ma cosa spinge gli uomini a diventare soldati, a intraprendere la carriera militare, se non l’identificazione con un ideale e con un capo con cui formano una folla duratura e altamente organizzata grazie alla cieca obbedienza che viene richiesta, massima obbedienza in tempo di guerra. Sono l’ideale e il leader che danno coesione a quella folla stabile che è l’esercito. Sono i grandi ideali per i quali sono pronti a dare la vita.

Attraverso l’operazione di identificazione con un significante padrone, “patria”, ad esempio – si veda il motto della Guardia Civil «Tutto per la patria» – il soggetto si abbandona a ideali che gli conferiscono l’aureola della gloria necessaria a ignorare l’infelicità della coscienza e il disagio esistenziale, e li porta a vivere al di là delle loro possibilità mentali e alla mancanza di libertà.

A questo si aggiunge – come motivo di accettazione della logica del gruppo e della guerra – l’angoscia di essere rifiutati dal mondo degli uomini. Questo funziona come causa di docilità a un ordine simbolico che è necessario per vivere e avere un posto nel mondo. Questo impedisce loro di prendere una decisione autonoma, come nel caso dei soldati russi che si prestano a invadere un altro paese sapendo che molti di loro moriranno per “liberare” i loro fratelli dal nazismo. Dov’è il pensiero critico? Perché non si ribellano? Perché non scappano?

Il soldato dedica la sua vita a ciò che è sacro per l’Altro per sedurlo e ottenere il suo riconoscimento e il suo amore. Dietro ogni sacrificio c’è una richiesta d’amore. Il soggetto si sacrifica a condizione di essere amato dall’Altro, dal capo o dalla patria. In guerra possiamo vedere come questo sacrificio diventi reale e il soldato uccide o muore per amore dell’ideale e alla ricerca di questo riconoscimento. Gli eserciti ne sono ben consapevoli, visto che riempiono di medaglie i loro migliori rappresentanti. Penso che dietro la richiesta d’amore inserita nel sacrificio – che ci mostra un godimento annodato al prestigio fallico, anche se questo viene raggiunto dopo la morte – ci sia un altro livello di godimento, più velato, che è il godimento della guerra. Infine, senza veli, senza pretese, senza senso, ciò che il soggetto trova nella guerra è un altro godimento molto diverso dal godimento del prestigio: il godimento della pulsione di morte. A questo godimento lo spinge il superio: «uccidi, muori, distruggi, fatti distruggere, odia, sottomettiti, ma godi fino all’ultimo atomo del tuo corpo! Consegna il tuo corpo, senza esitare e senza pensare, godi al di là del senso!»

Questo godimento è la vera ricompensa mortifera che il soldato trova in guerra. Al di là delle medaglie, delle promozioni, delle vittorie, dell’amore per l’Altro. L’emozionante scena dell’accoltellamento e della morte del soldato Mellish nel film Salvate il soldato Ryan è l’esempio più chiaro del godimento che ho appena sottolineato: il godimento di uccidere e il godimento di morire. Il reale di questo godimento si impone su qualsiasi operazione simbolica di senso. Simone Weil lo sottolinea nella sua lettera a George Bernanos: «Quando si sa che è possibile uccidere senza rischiare punizioni o riprovazione, si uccide. […] C’è (nella guerra) un incitamento, un’ebbrezza a cui è impossibile resistere senza una forza d’animo che mi sembra eccezionale, poiché non l’ho trovata altrove».

Tutto ciò richiama alla mente la posizione di sottomissione volontaria mostrata da Étienne de La Boétie nel suo famoso Trattato e sottolineata da Freud quando afferma che gli individui vogliono essere uguali tra loro, ma governati da un superiore a tutti, dimostrando che l’essere umano «è piuttosto un animale che vive in orda, un essere singolo appartenente a un’orda guidata da un capo supremo»[5].

Questo cattivo godimento che emerge durante la guerra è sostenuto dall’odio dell’Altro, dal rifiuto del suo godimento, dal razzismo in atto. Il soldato pensa giustamente che l’altro voglia il suo male, la sua morte, e che ne godrà. È certo che il suo odio e il suo desiderio di morte sono indubbiamente diretti contro di lui. La guerra è il terreno dove l’odio è generalizzato e la morte o la sconfitta dell’altro è l’unica via d’uscita.

Cosa fare con questa spinta mortifera? Cosa può fare il discorso analitico per fermare la guerra, le guerre, come quella di oggi in Ucraina? Chiaramente, non molto. L’umanità non è pronta per essere libera dalle guerre e probabilmente non lo sarà mai. Tuttavia, dobbiamo puntare a portare nel discorso questo godimento che sostiene le guerre, togliendo il velo che lo nasconde dietro l’altruismo (portiamo loro la democrazia) o dietro il proprio bene (mi difendo da una futura invasione). Svelare il desiderio di dominio, distruzione e potenziamento che sostiene tutte le guerre, uscendo dall’oscurantismo che può far credere all’umanità che esistano invasioni buone, chiamate “difensive”, come quella della Russia in Ucraina, o “preventive”, come quella degli Stati Uniti in Iraq. La psicoanalisi deve opporsi con decisione al discorso bellicoso che avalla la pulsione di morte e difendere la democrazia, lo stato di diritto e la libertà di espressione e sostenere la legittima difesa.

Traduzione: Adele Succetti

[*] Articolo pubblicato in spagnolo su “Zadigespana” il 30 maggio scorso, disponibile qui: https://zadigespana.com/2022/05/30/el-goce-de-la-guerra/
[1] J. Lacan, Il Seminario, Libro V. Le formazioni dell’inconscio, Torino, Einaudi, 2004, p.111.
[2] M.-H. Brousse (a cura di), Guerre senza limite, Psicoanalisi, trauma, legame sociale, Torino, Rosenberg & Sellier, 2017.[3] J. Lacan, La psichiatria inglese e la guerra, in Altri scritti, Torino, Einaudi, 213, p.118.
[4] Ivi, p.119.
[5] S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io, in Opere, vol.9, Bollati Boringhieri, Torino, 1977, p.309.

Guerra: femminile, singolare*

Ondina Machado – membro EBP e AMP – Rio de Janeiro – giugno 2022

Guerra è un sostantivo femminile, ma che cosa c’è di femminile nella guerra?

Nel libro La guerra non ha il volto di donna[1], Svetlana Alexievich riporta alcuni dati. Nel IV secolo AC, le donne combattevano in Grecia e partecipavano alle campagne espansionistiche di Alessandro Magno. Dopo Cristo, a causa della frequenza delle guerre, le donne dell’Est Europa accompagnavano i loro padri e mariti. In età moderna iniziarono a occupare incarichi infermieristici negli ospedali. Solo nella prima Grande Guerra l’aviazione britannica contava 100.000 donne in varie posizioni militari. Nella seconda Grande Guerra il numero delle donne nelle tre principali forze armate conobbe un notevole aumento. Inghilterra, Germania e Stati Uniti avevano un totale di circa un milione e duecentomila donne soldato. Ma in Unione Sovietica questo fenomeno fu ancora più diffuso, sia in relazione agli incarichi ricoperti, sia per il numero di donne che vi parteciparono: un milione di donne arruolate, spontaneamente, nell’esercito sovietico. Svetlana sottolinea che questo ha fatto sì che alcune parole che designavano specialità militari in precedenza esclusive degli uomini, avessero i loro correlati femminili. Fino ad allora la guerra non era un campo femminile, solo nel XX secolo le donne sono entrate a far parte di questo universo prevalentemente maschile.

Sull’articolo

Una provocazione di Graciela Ruiz riguardo alla possibilità che le donne formino eserciti[2], mi ha fatto riprendere in mano quel libro straordinario di Svetlana. Letto prima come una magnifica opera letteraria, vi ritorno attenta alle testimonianze di donne che andarono in guerra come soldati.

Non è mio scopo enumerare gli eserciti di donne nel corso della storia sebbene le Amazzoni del Dahomey mi provochino una certa curiosità. Questo articolo ha il chiaro interesse di riprendere le affermazioni presenti nel libro La guerra non ha un volto di donna di Svetlana Alexievich per pensare a come e perché le donne vanno in guerra, donne del nostro tempo nelle guerre del nostro tempo.

Sul libro

La storia del libro ci porta già in un mondo diverso da quello rappresentato nei libri e nei film scritti da uomini. Svetlana inizia la sua ricerca nel periodo dal 1978 al 1985, motivata dai ricordi della nonna e della madre sui tempi della guerra. Il manoscritto risultante da quel periodo fu conservato per sedici anni. Gli editori respinsero la pubblicazione ritenendo che l’autrice trattasse il tutto con un “naturalismo primitivo”[3], soffermandosi troppo sull’orrore della guerra, senza citare la dirigenza del Partito Comunista, senza metterne in luce gli eroi e raccontarne le gesta. In una conversazione con un censore dell’epoca, questi pretendeva che dipingesse la donna sovietica combattente come un’eroina e non come una donna comune: «noi le consideriamo delle sante» (p.31).

L’edizione si concretizzò solo nel 1983, dopo la perestrojka di Gorbaciov (1985-1991). Ha venduto milioni di copie e nel 2015 ha ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura.

 

Sull’autrice

Per l’autrice, la sua generazione è stata quella dei «figli della Grande Vittoria» (p.11). Nata in Ucraina nel 1948, viveva in un villaggio prevalentemente di donne segnate dalla perdita del loro paese, dei loro mariti e figli. Quando si parlava di guerra, le donne piangevano e cantavano. A scuola la vita eroica veniva esaltata dal discorso maschile vittorioso, ma «le voci della strada gridavano un’altra storia» (p.12). Svetlana partì alla ricerca di ciò che dicevano quelle voci. Le storie che ha raccolto differivano dalla “voce maschile” ufficiale: «siamo tutti prigionieri di percezioni e sentimenti ‘maschili’ sulla guerra» (p.13). In questi racconti, l’eroismo di uccidere il nemico o la perdita di un compagno non compaiono quasi mai. Secondo l’autrice, le donne parlano di altro, parlano di odori, di colori, di una scarpetta di bimbo in mezzo al fango, parlano del sacrificio di uccelli e alberi, parlano dell’adempimento di un «compito inumano» (pag. 14).

Si tratta di donne tiratrici scelte con i mitra, piloti di caccia, conducenti di carri armati, cecchine, carriste, donne che fino ad allora vivevano con le loro famiglie e che per i più svariati motivi furono spinte ad arruolarsi volontariamente o acconsentirono all’arruolamento indotte dalla famiglia, anche senza capire bene che cosa questo comportasse.

Nel corso delle interviste, l’autrice ha incontrato le difficoltà di molte di loro nel raccontare ciò che avevano vissuto 40 anni prima. Di fronte al reale, tacevano. Che cosa dire di un’esperienza limite? Quali parole usare per raccontare ciò che avevano vissuto? In questi momenti le donne tacciono.

Alcune non ne avevano più parlato, per non rivivere gli orrori della guerra o perché non riuscivano a esprimere a parole la loro sofferenza. Ad altre è addirittura piaciuto l’invito, si sono sentite sollevate nel parlare, anche senza capire perché qualcuno si interessasse alle loro storie di bambine dato che avevano vissuto la guerra in tenera età. Svetlana ritiene che alle conversazioni prendessero parte tre persone: la donna di quel momento, quella dei tempi della guerra e lei, l’intervistatrice.

Le donne erano tornate dalla guerra e avevano ripreso le loro vite dal punto in cui le avevano lasciate, anche se non erano più le stesse persone. Alcune si erano sposate al fronte, avevano avuto figli o li avevano persi, si prendevano cura dei loro capelli, ballavano, cantavano e si erano viste trasformate in uomini nel sostituire i loro abiti con l’uniforme, nel farsi tagliare le trecce.

Quello che le donne ricordano della guerra è diverso da ciò che ricordano gli uomini e molti di questi ricordi sono stati ignorati dalla storia ufficiale in quanto «piccolezze» (p.23), «storielle» (p.36), troppo personali, troppo umane. Varie donne intervistate hanno dichiarato che ai loro mariti piaceva ricordare la guerra, ma a loro no. Molte hanno cercato di cedere loro il posto sostenendo che avrebbero saputo raccontare meglio dato che ricordavano i nomi dei comandanti di battaglione, i generali, il numero delle unità e i loro contingenti. Esse non raccontavano la storia della guerra ma la loro guerra, quella vissuta come donne. Meno l’evento e più i sentimenti, «la storia del piccolo uomo espulso da un’esistenza banale fino agli abissi epici di un evento enorme» (p.63).

Alla guerra sono necessarie le grandi storie, storie che alimentano l’eroismo e quindi forniscono soldati disposti a morire, vai a sapere perché. Alla fine, senza soldati non ci sarebbe la guerra. Aveva ragione il censore: «dopo libri come questo nessuno vorrà andare in guerra» (p.32).

Sui racconti

Il libro ha 390 pagine ed è composto da più di 500 racconti[4]. Alcuni sono raccontati, parlati, altri invece muti, dedotti al di là delle parole. Svetlana è stata capace di ascoltare il silenzio, di «leggere la voce» (p.17), ha ascoltato il dolore come prova della vita passata. Sapeva che le sue testimoni parlavano del limite di ciò che è possibile dire di un’esperienza che va al di là del limite della vita. Così ha accettato i loro pianti – «piangono molto» (p.22), le loro grida, ma non fa niente con questi, li accoglie soltanto. Si rifiuta di elaborarli perché vuole farne vita, non letteratura. Conosce il  terreno su cui si muove, «le idee impallidiscono davanti al volto della guerra e viene alla luce quell’inconcepibile eternità che nessuno è preparato ad affrontare» (p. 22).

L’ascolto di Svetlana ha una certa prossimità con l’ascolto analitico. Come nel caso di un analista, il suo desiderio non era puro, era abitato dal desiderio di ascoltare la differenza del discorso femminile sulla guerra, l’esperienza singolare «fuori dai limiti della legge […] l’unico luogo dove [il desiderio] può vivere»[5]. Fuori dai canoni paterni che elencano in dettaglio numeri, nomi e grandi eventi, cerca l’esperienza della vita nel suo tenue limite con la morte. Poter ascoltare l’esperienza singolare di ogni donna è determinante per estrarre dai racconti la piccola storia personale. Il risultato sarebbe stato certamente diverso se ci fossero state altre orecchie ad ascoltare, a selezionare e a incoraggiare a parlare.

All’inizio alcune donne si rifiutavano di parlare perché non credevano ai loro ricordi, altre dicevano di aver dimenticato tutto. Svetlana, invece, portava con sé l’esperienza delle chiacchierate con la nonna che non parlava della guerra ma ricordava le famiglie distrutte, la vedovanza delle vicine, la disperazione per la perdita dei figli. Le voci della strada. Ricordava che molti cadaveri erano stati sotterrati in quel bel campo dove passeggiava con la nipote. Il tono della conversazione veniva da lì, aveva come origine il dire di una donna, un certo punto oscuro, enigmatico, indicibile con cui si trasmetteva qualcosa sui confini della parola.

Come raccontare di una donna che aveva appena partorito mentre si trovava in una foresta circondata da un branco di cani segugi e aveva annegato il figlio perché stava morendo di fame e, anche lei affamata, non aveva latte per allattarlo? I suoi compagni, uomini e donne, non dissero nulla. Grati, rispettarono il suo dolore. O la prima volta che un’eccellente tiratrice scelta, la quale si era distinta nell’addestramento, uccise «una persona viva» (p.51). Ancora incredula per quello che aveva fatto, iniziò a tremare «io ho ucciso una persona?» (pag.51). Alienata fino a quel momento all’ideale stalinista che promuoveva il culto della patria e del governo, questa donna prese coscienza del suo ruolo nella guerra solo quando il bersaglio di legno era diventato il corpo vivo di una persona. Non smise mai di sentire quel brivido attraversarle il corpo.

Possiamo immaginare il numero di persone uccise da una tiratrice munita di mitragliatrice. Così, quando tornò dalla guerra, ritenette di non potere e di non dover concepire. Aveva paura di rimanere incinta, di dare alla luce un bambino perché non poteva perdonare né i suoi nemici né se stessa, disse che le era piaciuto vederli soffrire. Afferma di aver vissuto due vite: «una da uomo e l’altra da donna» (p.38).

Nella valutazione dell’autrice «la guerra ‘femminile’ è più terribile di quella ‘maschile’» (p.15). Secondo lei, gli uomini si nascondono dietro la storia, i fatti, le grandi imprese. C’è un forte marchio virile nella guerra, un momento incomparabile per mostrare al mondo coraggio e valore. Un’aperta rivalità è comune nei giochi infantili maschili. La cultura stessa fornisce loro una narrazione per uccidere. La lotta fa parte dell’universo dei bambini, le loro famiglie li preparano per questa. Le loro storie preferite di solito riguardano lo sport, la guerra e le avventure. I supereroi hanno sempre un nemico da combattere. Non sono esenti dalle sofferenze della guerra, dalla sua insensatezza, ma hanno più strumenti per includere questa esperienza nell’Altro, la cultura riserva loro un posto di giubilo. Mentre alle donne, no.

Esse sono segnate dalla sofferenza in aspetti della loro vita che sono loro molto cari: l’amore, la famiglia, la bellezza e la giovinezza. Possono anche apprezzare un atto eroico ma non si sentono da questo ricompensate per la sofferenza e la privazione di una parte importante della loro vita. Molte lamentano i precoci capelli bianchi acquisiti durante la guerra. Una aveva la testa tutta bianca a diciannove anni quando ricevette una decorazione per aver salvato un compagno gravemente ferito che era stato abbandonato. Un’altra tornò dalla guerra all’età di ventitré anni senza un capello scuro in testa. Dopo essere stata mutilata, una giovane donna non ebbe il coraggio di tornare a casa, voleva risparmiare alla madre questa enorme delusione. A diciannove anni, dopo essere rimasta ferita in un raid aereo e aver ricevuto una Medaglia al Valore, una giovane dichiara: «Sono cambiata così tanto durante la guerra che quando sono tornata a casa mia madre non mi ha riconosciuto» (p. 68).

La maggior parte riferisce difficoltà nell’adattarsi alla vita civile: sposarsi, avere figli, vivere con un uomo, non fu possibile per molte che erano state in guerra. Quelle che avevano sposato ex combattenti ritenevano di essere state fortunate ad avere come partner uomini che sapevano quello che avevano passato. Oltre ai problemi propri c’erano anche molti pregiudizi contro le “ragazze del fronte”. Per loro si era creato uno stereotipo che non favoriva l’incontro amoroso: «sole, malvestite, fumatrici e scurrili». Le donne che non erano andate in guerra le chiamavano «cagne militari» e gridavano «sappiamo cosa ci facevate lì!». Riconoscevano un certo imbruttimento, difficoltà nell’essere affettuose. Una donna cecchino, che ebbe una figlia con problemi, si sentì dire dal marito: «Ti pare che una donna normale andrebbe al fronte? Imparerebbe a sparare? Per questo non sei stata capace di partorire una bambina normale» (p. 306). Lei stessa si considerava incapace di amare.

Come essere donna in guerra? Come rimanere donna dopo aver vissuto la guerra? La donna esisteva, tutti sapevano che cosa fosse una donna tranne loro. Questo pensavano, ed ecco perché soffrivano per non riuscire a corrispondere alla donna forgiata dal discorso maschile, dalla fantasia di un uomo. La guerra non ha permesso loro di vivere avventure e disavventure, di percepire che non c’è solo un modo di essere donna, che una donna sono varie. Tutto contribuiva a confinarle nella solitudine.

Qualcosa della soggettività di queste giovani donne fu inghiottita dalla guerra, i loro corpi erano stati segnati indipendentemente dalle mutilazioni. Il corpo della persona che spara riceve su di sé il marchio del colpo tirato, soprattutto nel caso delle donne. Mutilate, ferite, invecchiate, il reale del corpo femminile è segnato dalla guerra al di là della sua immagine. «La guerra è un’esperienza troppo intima. E infinita, come la vita umana» (p.16). Ci sono storie di donne che non potevano andare al mercato e vedere le bancarelle di carne rossa, altre hanno generalizzato l’odio per il colore rosso: «Da dopo la guerra, odio il rosso!» (pag.23). Molte riferivano l’interruzione delle mestruazioni durante la guerra. Per altre, avere il ciclo era un modo per ricordarsi che erano donne, anche se questo costituiva un ulteriore ostacolo: la mancanza di qualcosa per fermare il sangue, i pantaloni spessi che si inzuppavano, le tracce lasciate per i cani nemici, le numerose notti in boschi umidi e pantani.

Perché le donne si arruolarono?

Per la famiglia, per la patria e per amore. Alcune scapparono dalla famiglia per arruolarsi, altre furono arruolate per onorare la famiglia. Altre per un sogno romantico. Una di loro ricorda di aver sentito il discorso di Stalin alla radio che convocava “fratelli e sorelle” per proteggere la patria (p. 65). Non dimentichiamo che il regime collocava la patria come il suo bene più grande e che negli ultimi anni il popolo aveva sviluppato una vera venerazione per il rivoluzionario bolscevico che aveva sostituito Lenin, Stalin.

Anche le famiglie antistaliniste, alcune con parenti nei campi di lavoro forzato, insistevano per mandare le loro figlie.

È interessante notare che le donne che si arruolarono volevano andare al fronte, non accettavano di lavorare negli ospedali o con compiti amministrativi. Un gruppo di donne fu inserito in un battaglione di comunicazione, cosa che le ha indignate perché lo consideravano un lavoro minore, “un’umiliazione” (p.74). Dopo la guerra civile, quando lo zar fu deposto, il comunismo predicava la parità di trattamento tra uomini e donne. Tuttavia l’Unione Sovietica era ancora in gran parte rurale e, sebbene la capillarità dello Stato fosse grande, le usanze non si modificavano per decreto. Quindi c’era tra le giovani di campagna, il desiderio di raggiungere questi progressi sociali e la guerra può essere stata per loro un mezzo per raggiungere l’uguaglianza tanto sognata.

Alcune partirono per amore di un uomo, pensavano che sarebbero riusciti a stare insieme al fronte, altre si accontentavano di combattere la sua stessa battaglia. Una di loro raccontò che sognava di morire accanto al suo amato, nella stessa battaglia (p.71).

Mentre veniva condotta al fronte, un’infermiera notò durante il viaggio che non c’erano uomini sui treni che le stavano trasportando, solo donne. Dedusse che mancavano gli uomini (p.72), ecco perché accettavano così tante donne. Essendo questi morti, feriti o prigionieri, loro erano i pezzi di ricambio.

Erano tutte molto giovani, la maggior parte senza legami sentimentali e ancora senza una professione. Delle poche che avevano già formato una famiglia, tutte, senza eccezione, esercitavano già prima una qualche attività militare.

Le giovani che venivano dai villaggi più lontani si stupivano di trovare altre donne nelle unità di addestramento. Sembra che ognuna del milione di donne che si arruolarono volontariamente nell’esercito sovietico si aspettasse di essere l’unica. Anche in guerra l’erotomania ha il suo posto.

La guerra non è stata fatta per le donne, lo sappiamo. Quello che non sapremo mai è se la guerra sarebbe fatta dalle donne se ne avessero l’opportunità. Tra Golda Meir, Margaret Thatcher e Angela Merkel, donne in posizioni di potere nei momenti critici dei loro paesi e guarda caso tutte tre chiamate Signore di ferro, solo la Thatcher fece politica con la guerra.

Traduzione: Giuliana Zani

[*] Articolo pubblicato il 4/6/2022 in https://zadigespana.com/2022/06/04/guerra-femenino-singular/
[1] S. Alexiévich, La guerra non ha un volto di donna, Milano, Bompiani, 2017
[2] Nella riunione di programmazione della ricerca di quest’anno del VEL – Violencia, Estudios Lacanianos – un Dipartimento di Ricerca dell’ICdeBA, coordinato da Graciela Ruiz, Marcelo Marotta e Ernesto Derezensky.
[3] I numeri tra parentesi si riferiscono alle pagine del libro citato nella nota 1, nell’edizione spagnola, La guerra no tiene rostro de mujer, Barcellona, Debate, 2015.
[4] L’autrice disse che smise di contare dopo aver raggiunto 500 racconti. Molti altri furono raccolti in seguito.
[5] J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Torino, Einaudi, 2003.

Guerra, gerarchia e salute mentale

«Il sapone e il sacrificio umano vanno mano per mano»[1]

Annalisa Piergallini – membro SLP e AMP – Ascoli Piceno – giugno 2022

La guerra è sempre stata presente nella mia infanzia, nell’assenza del braccio sinistro di mio nonno. Era reale, come reale era quella mancanza. Lui affrontava la cosa con molto coraggio, faceva tutto, si vantava di come era fatta bene la sua protesi e si comprò una piccola automobile con guida facilitata di cui andava molto fiero. Oltretutto partecipava orgogliosamente agli incontri dei mutilati di guerra e si beava di avere una buona pensione.

Mio nonno guardava il bicchiere mezzo pieno, per fortuna aveva perso il braccio sinistro e non il destro, del resto aveva lo stesso atteggiamento anche con la calvizie, non faceva che ripetere che gli bastava un solo gesto per lavarsi faccia e testa. Insomma non si poneva mai come un handicappato, nonostante lo fosse, per la becera mania colonialista di Mussolini che lo aveva obbligato ad andare in guerra, prima in Etiopia, poi in Albania.

Non era così scemo da essere andato volontario. Quando, molto anziano, ebbe un ictus, finalmente parlò della guerra per quello che era: un orrore. Se pagavi, non partivi e loro pagarono, la prima volta. La seconda volta, di nuovo pagarono. Ma alla terza chiamata i soldi erano finiti, così dovette partire.

Ma questo l’ha detto solo molto più tardi, dopo l’ictus aveva una lucidità assolutamente superiore a quella che, a mio parere, aveva prima, nonostante la sua riuscita sociale e, tutto sommato, lavorativa. Prima il suo racconto, ricorrente, sull’esplosione della granata che gli aveva tolto il braccio, era parecchio strano.

Lui era fortunato, non combatteva, la sua seppur limitata istruzione gli consentiva di stare al telegrafo, ma quella bomba lo raggiunse lo stesso.

Rimase tre giorni ferito sul campo di battaglia. Quando finalmente arrivarono i soccorsi, il colonnello in persona gli fece i complimenti. Per cosa esattamente io non l’avevo mai capito.

La narrazione era incentrata su questi complimenti, il riconoscimento del superiore, in gerarchia.

Il racconto era gemello di un altro, di molto successivo, ma ugualmente ricorrente, in cui il direttore generale, in visita nella filiale della banca dove lui lavorava, come fattorino, lo aveva riconosciuto e gli aveva stretto la mano, chiedendogli perfino della moglie e dei figli.

In realtà, ho scoperto solo qualche anno fa, conoscendo casualmente quel direttore generale, che l’aveva proprio scambiato per un altro, il direttore della filiale, tanto era elegante, nei modi e nel vestire.

Insomma quest’uomo, eroe ordinario, era sopravvissuto a una guerra, restando sempre fedele alla gerarchia, anzi, probabilmente proprio grazie alla sottomissione gerarchica, aveva potuto tenere insieme se stesso e la sua disgrazia, che avevano un senso, se un senso avevano la struttura militare e la piramide aziendale.

Dopo l’ictus, per poco tempo parlò davvero della guerra, per poi perdere velocemente la ragione. Chissà che non sia stato anche il peso di ciò che non aveva improvvisamente più senso. Essere benvoluto dai superiori, che tanti vantaggi gli aveva portato, forse era davvero diventato per lui quello che è: un inganno.

Vi racconto tutto ciò perché voglio mettere questa storia di guerra e di fede nella gerarchia in rapporto con la narrazione del protagonista de Il male oscuro, che essendo un romanzo autobiografico, corrisponde a quella del suo autore: Giuseppe Berto.

Eccellente scrittore italiano, è poco conosciuto anche per essere stato un sostenitore del fascismo. Si arruolò volontario come soldato a diciotto anni, anche perché il padre si rifiutò di continuare a pagargli gli studi, visti gli scarsi risultati. Nel 1935 partì per la guerra d’Abissinia, ritornandone ferito ma con due medaglie, una d’argento e una di bronzo, di cui riscuoteva gli assegni. Ma già prima, aveva fatto parte dal 1929 degli Avanguardisti e poi dei Giovani fascisti, dei Gruppi Universitari fascisti e della Gioventù Italiana del Littorio.

Sentite cosa dice della guerra: «La vita è proprio interessante spesso qualcuno di noi muore ma chi non muore fa quantità enormi di esperienza sessuale con le ragazze abissine dato che quando se ne vede una che piace basta dire all’attendente di portarla e quello la porta poiché lì grazie a Dio sono gente civile e non badano a queste cose basta pagare pochi talleri…»[2]

La guerra non gli lascia traumi, apparentemente, tranne qualche ulcera intermittente. Ma «l’identificazione patriottica di matrice paterna era già caduta da sola, quando aveva visto con i suoi occhi i suoi vecchi capi accordarsi con i nuovi. Dirà di avere sprecato quegli anni rivestendo il patriottismo e la sua attiva belligeranza delle stanche scuse dell’equivoco»[3].

Caduta la fede nel fascismo, non per la caduta del fascismo, ma per la delusione a causa del comportamento dei gerarchi, Berto si mette a scrivere. Ma, nonostante viva della sua scrittura, non gli basta l’arte per tenersi in piedi, soggettivamente; alla morte del padre, le sue malattie psicosomatiche prendono piede, sempre di più, arrivano perfino ad aprirgli la pancia. Insomma, dopo varie sofferenze arriva da Nicola Perrotti, tra i pionieri della psicoanalisi in Italia.
Crollando la sottomissione al padre, che si trasforma brutalmente in lotta contro il padre, si appella ai gerarchi e alla fede fascista, sopportando, anzi godendo della guerra.

«Non c’è intermediazione alcuna di significanti se non scritti sul corpo, piuttosto segni della guerra che tentativi di nominazione»[4].

Guerra senza intermediazione della parola, con il padre, come con la donna che sarà sua moglie e madre di sua figlia.

Mi chiedo chi, senza credere negli ideali, senza trovare in essi il sostentamento di una soggettività traballante, sopporterebbe mai di andare in guerra.

Allora nessuno vuole combattere una guerra, se non la vive già. Ma dalla TV strombazzano ancora propagande che trovano ancora chi ci crede. Ma se, come scrive Lacan, il capitalismo ha bisogno di una guerra ogni vent’anni[5] e non bastano nemmeno solo venti, quali modi e quali strategie s’inventano, o cavalcano, per far sì che la gente appoggi, non protesti o addirittura si arruoli e parta a diventare carne da macello, ora che i Nomi-del-Padre stanno evaporando le ultime gocce?

Catch 22 è un libro notevole, uscito nel 1961, di Joseph Heller, un romanzo tragico e comico, che critica in modo satirico la guerra e la gerarchia militare. Basato sull’esperienza personale dell’autore, narra di un gruppo di aviatori dell’United States Air Force in missione in Italia, durante la seconda guerra mondiale. È uscito in Italia nel 1963, con il titolo Comma 22, una norma che non è mai esistita in realtà e che è questa:

«Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo»[6].

[1] Chuck Palahniuk, Fight club (1998), Edimar, Milano, 1998, p.71.
[2] Il male oscuro, Rizzoli, Milano, 1973, p. 381.
[3] Articolo mio, Quando il male oscuro divenne chiaro, disponibile qui: http://www.psychiatryonline.it/node/6640
[4] Ibid.
[5] J. Lacan, Il Seminario. Libro XVI, Da un Altro all’altro [1968-1969], Torino, Einaudi, 2019, p.238.
[6] Joseph Heller, Comma 22, Bompiani, Milano, 2019.

Tra le righe: E noi come stronzi rimanemmo a guardare

Omar Battisti – membro SLP e AMP – Rimini – giugno 2022

Sabato 11 Giugno Jacques-Alain Miller ha esordito la presentazione della raccolta Come finiscono le analisi. Paradossi della passe, facendo riferimento ad un suo testo di molti anni fa chiamato Algoritmi della psicoanalisi.[1] Passando poi a parlare della macchina di Turing. Quindi algoritmi ed intelligenza artificiale. (NB: in italiano il testo di Turing è tradotto per Boringhieri con Intelligenza meccanica, che non è la stessa cosa di artificiale. Perché questo spostamento da meccanico ad artificiale? Cosa comporta questa sostituzione?)

Il film di PIF inizia con una coppia che mette alla prova la tenuta del loro amore sottoponendosi ai quesiti di una APP. L’algoritmo è il personaggio principale di tutto il film, che passa di bocca in bocca tra i vari protagonisti del film, accompagnato dal suo luogo tenente, il guru parodia di Steve Jobs e di chiunque si mette a prometterci mari e monti, a indorarci la pillola, a mostrarci come sia semplice essere vincenti e felici: basta un click!

PIF estremizza ciò che sta già accadendo, portandolo agli eccessi ma non in una chiave vittimistica, dove il pover’uomo al centro della storia, Fabio De Luigi, è schiavizzato dal potente di turno brutto e cattivo. Aperta parentesi: è lo stesso protagonista che inventa l’algoritmo di cui subirà le feroci conseguenze. I biologi di cui parla Lacan ne La terza avevano avuto l’angoscia di non procedere con certi esperimenti sui batteri che avrebbero potuto sterminare l’essere parlante. L’inventore dell’algoritmo qui non si pone le stesse remore e ne paga le conseguenza. Chiusa parentesi.

Quindi il pover’uomo non è una vittima, è lui che ha creato le condizioni della propria Odissea. Nella scena da cui si estrapola la frase che dà il titolo al film, nel dialogo con Arturo uno dei personaggi parla del peggio che di certo seguirà alle attuali condizioni orribili. E si chiede cosa avranno fatto loro per evitare che questo accadesse. Risposta: «E noi come stronzi rimanemmo a guardare!» a quella cavalcata verso il baratro dell’ascesa allo zenith dell’oggetto a e del regno incontrastato della pulsione di morte non più imbrigliata dalle maglie della funzione paterna. A questo proposito, Lacan si chiedeva: di padre in peggio?

PIF trova nell’amore quell’incalcolabile che l’algoritmo non può prevedere e che sfugge alla possibilità di gestire la vita di ciascuno in base a dei calcoli prefissati. Tuttavia non ne fa la panacea di tutti i mali. Aspettate di vedere la fine del film e forse non potrete solo come stronzi rimanere a guardare. A me qualcosa ha preso alle budella al punto da esserne portato a scriverne…

[1] J.-A. Miller, Algoritmi della psicoanalisi, in I paradigmi del godimento, (a cura di A. Di Ciaccia), Astrolabio, Roma, 2001, pp.73-82.