«E l’essere dell’uomo non solo non può essere compreso senza la follia, ma non sarebbe l’essere dell’uomo se non portasse in sé la follia come limite della sua libertà»
Jacques Lacan, Discorso sulla causalità psichica, in Scritti, Torino, Einaudi, 1974, p. 170.
Responsabile: Laura Storti – retelacan@gmail.com
Redazione: Eva Bocchiola, Sergio Caretto, Adele Succetti, Sebastiano Vinci, Giuliana Zani
Grafica a cura di: Matteo De Lorenzo
Per il sito: Valentina Lucia La Rosa
Sommario
Rete Lacan n°36 – 20 ottobre 2021
- I disastri della psichiatria contemporanea
Roberto Cavasola - Due posizioni a confronto su “Psicoanalisi e Psichiatria”
Raffaele Calabria - Il disastro della gestione della salute mentale in Italia
Giuseppe Oreste Pozzi - Jean-Luc Nancy, l’intruso
Sergio Sabbatini - Redivivus – Lacan inedito, un regalo monumentale
Agnès Vigué-Camus - Tra due soglie
Vanessa Sudreau
in copertina:
Paul Klee, Untitled, 1914.
I disastri della psichiatria contemporanea
Roberto Cavasola
Membro AME, SLP e AMP – Roma – settembre 2021
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Comincerò raccontando qualcosa della mia storia. Quando ero studente avevo iniziato un tirocinio al manicomio di Ferrara e avevo conosciuto Slavich, l’amico di Basaglia coautore con lui de L’istituzione negata, che lo dirigeva; due anni dopo mi sono trovato a lavorare nell’ospedale psichiatrico di Perreux, a Neuchâtel in Svizzera, poi nella Clinica psichiatrica universitaria di Ginevra, dove tra i supervisori c’era René Diatkine (uno psicoanalista formato da Lacan che veniva appositamente da Parigi una volta al mese per le supervisioni, e il cui trattato di neuropsichiatria infantile fa testo). La stessa esperienza si è ripetuta dopo in senso inverso: prima ho lavorato nel manicomio di Reggio Emilia e in una comunità per ex-lungodegenti, e dopo ho fatto un tirocinio all’ospedale di Sainte-Anne a Parigi, dove c’erano le supervisioni cliniche di Colette Soler e le presentazioni di malati di Eric Laurent. Ebbene, quello che raccontano certi colleghi di “sinistra”, secondo cui “noi abbiamo chiuso i manicomi mentre negli altri paesi ancora esistono” è davvero una storiella fasulla impregnata di provincialismo culturale. Il manicomio di Ferrara e quello di Reggio Emilia non avevano assolutamente niente a che vedere con i tre ospedali psichiatrici stranieri sopra menzionati. Si trattava di strutture abbandonate per decenni al degrado, da tutti i punti di vista, erano davvero dei luoghi orribili; è chiaro che, vista la situazione, la cosa più semplice, e anche la più economica, era chiuderli.
A quarant’anni dalla chiusura dei manicomi qual è la situazione oggi? In Italia si sta accentuando sempre di più una situazione drammatica di abbandono: abbandono di certi psicotici gravi, abbandono degli anziani con problemi psichiatrici (anche i dementi, ma non solo loro, nel servizio dove lavoravo quelli con più di 65 anni erano respinti e inviati…al geriatra!), abbandono dei pazienti con disabilità mentale (specie gli adulti), e anche relativo abbandono di tossicodipendenti con problemi psichiatrici importanti. Già, tra l’altro ci siamo dimenticati che nei manicomi non c’erano solo gli schizofrenici…i reparti per i dementi erano quantitativamente almeno altrettanto importanti e c’era anche il reparto degli oligofrenici.
Dato lo spazio limitato farò una lista delle questioni che bisognerebbe approfondire. Soprattutto ci sarebbero tante storie da raccontare per capire qual è la realtà, per cui si è passati dalla mostruosità dei manicomi a quello che diceva il mio primario di Reggio Emilia: “i pazienti adesso sono manicomializzati in casa”. E come diceva il mio amico primario di Ginevra: “la stazione di Milano è piena di schizofrenici in uno stadio avanzato di clochardizzazione”.
1) I pazienti gravi di fatto vengono gestiti dalle famiglie. Si assiste a situazioni estreme: una madre ha fatto mettere una porta blindata per chiudersi in camera e ripararsi dal figlio. Infatti, in mancanza di una vera presa in carico, la legge prevede che i famigliari abbiano un obbligo di assistenza…e sono gli unici ad essere veramente obbligati dalla legge. Come nel caso di quella coppia di genitori uccisi dal figlio nel nord Italia, perché gli avevano comunicato di voler dividere la casa in due – era stato da poco dimesso da un reparto di psichiatria. Gli psichiatri, e anche alcuni psicologi che in questo paese possono dirigere servizi di psichiatria, hanno invece la facoltà di occuparsene o meno.
2) Gli SPDC, unico caso nel mondo di reparti ideologicamente annessi agli ospedali generali per non fare discriminazioni, sono strutture inadeguate per attuare dei veri ricoveri psichiatrici. Il numero di posti letto è di circa il 500% inferiore al numero di posti, ad esempio, di Ginevra o di Parigi. Il risultato è che i pazienti vengono dimessi perché altrimenti non si saprebbe dove mettere i pazienti che arrivano. Se avete quattro nuovi ricoveri in un giorno, dovrete dimettere quattro pazienti quello stesso giorno, perché il reparto è sempre pieno. Così è accaduto a due pazienti che avevano un buon lavoro di perderlo perché sono stati dimessi troppo presto. Altri si sono suicidati.
3) Nei Paesi menzionati è piuttosto facile trovare lavoro a un paziente. Vi sono canali di inserimento lavorativo bene organizzati e che funzionano. In Italia esiste una riserva di posti per gli invalidi civili che viene applicata raramente, talvolta per pazienti raccomandati. Di fatto i pazienti vengono discriminati, non trovano lavoro, e non esiste un vero servizio di inserimento al lavoro.
4) Uno strumento molto efficace è l’assistenza domiciliare. Data la regionalizzazione della sanità è molto variabile da un posto all’altro. Non è mai stata però veramente un obiettivo specifico, strutturato e organizzato. Anni fa gli infermieri con cui lavoravo erano incentivati con gli straordinari, ed erano anche fortemente motivati perché provenivano dai manicomi. L’apertura di strutture intermedie si è fatta utilizzando gli infermieri degli ambulatori e riducendone il numero, e gli straordinari sono stati tagliati. L’assistenza domiciliare è diminuita. Il COVID ha messo a nudo le carenze di una gestione manageriale-politica della sanità. Il ruolo dei primari sembra essere diventato quello di fare risparmiare soldi al manager e soprattutto dire che tutto va bene così.
Di altri temi non posso parlare per mancanza di spazio, come la riabilitazione, le cliniche, le comunità, il ruolo del sapere e altri.
Due posizioni a confronto su “Psicoanalisi e Psichiatria”
Raffaele Calabria
Membro AME, SLP e AMP – Ravenna – ottobre 2021
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Spiace assistere, quasi inerti, all’evidente e generalizzato depauperamento dei Servizi Psichiatrici. Perché questo rovinoso declino di un’area socio-sanitaria così importante, che per certi versi ha rappresentato un’avanguardia nei processi di riforma dei servizi sanitari negli anni settanta/ottanta del nostro Paese? Non è questa la sede per approfondirne le cause; prendiamo atto, però, che il generale livello di studio, compreso il desiderio di sapere, si è abbassato inesorabilmente tra gli operatori e che l’ignoranza ormai la fa da padrona. Il tutto a favore del lavoro, l’unico ad essere ritenuto guida non solo ai fini di una insignificante produttività prestazionale ma anche, e forse soprattutto, per l’apprendimento del cosiddetto ruolo professionale. È Lacan che lapidariamente ci ricorda una verità fondamentale e, aggiungerei, imprescindibile: «Il sapere non si acquisisce con il lavoro e men che meno la formazione che del sapere è l’effetto»1.
Una Psicoanalisi in soccorso alla Psichiatria
La lettura di due testi ci ha fatto da orientamento in queste poche riflessioni. Il primo è un articolo di Mario Perini, dal titolo Un approccio psicoanalitico alle istituzioni della salute mentale2, inserito nell’ultima collettanea cartacea che la SPI ha prodotto prima di passare alla produzione on-line. In esso l’autore, partendo dalla annotazione che all’interno della psicoanalisi si sia sviluppata una cultura anti-istituzionale, così stigmatizza i compiti futuri: «Il passo ancora da fare – o da completare – sembrerebbe la transizione dalla “psicoanalisi nell‘istituzione psichiatrica” alla “psico(socio)analisi dell‘istituzione psichiatrica”»3. Di qui l’elenco degli strumenti concettuali utili a esplorare l’organizzazione, ridotta così a soggetto clinico da osservare, interpretare e anche curare.
E, nell’esplorare i compiti primari che l’istituzione psichiatrica dovrebbe svolgere, mette in evidenza gli aspetti difensivi che hanno la funzione di riparare dall’angoscia e gli aspetti paradossali secondo i quali, a fronte di una più o meno buona gestione della comunità che le è affidata, la psichiatria «appare a volte seriamente in difficoltà nell’affrontare le proprie»4. L’autore elenca quindi le diverse strategie difensive messe in atto, e tra tutte ne riportiamo per intero una che ci pare di comprovata attualità:
«L’enfasi sui farmaci è in larga misura il prodotto della deriva organicistica della psichiatria contemporanea, e risponde solo in parte agli indubbi progressi della psicofarmacologia, mentre tradisce palesemente, nella prescrizione come nell’uso, la diminuzione della tolleranza istituzionale e sociale verso la condotta disturbante dei pazienti, la progressiva ritirata dei curanti dal fronte ansiogeno della relazione, l’investimento magico-onnipotente della chimica a fronte delle delusioni inflitte dagli approcci basati sulla parola o sul contatto personale; e, Ça va sans dire, riflette la crescente influenza dell’industria farmaceutica nei confronti di una psichiatria sulla difensiva e ormai troppo spesso incline a identificarsi con l’aggressore di turno»5.
Dopo aver, infine, espresso il sospetto che i tagli economici alla psichiatria abbiano a che fare con l’intento di impedirle di riabilitare socialmente soggetti da cui la società vuole tenersi lontana, passa ad analizzare il contributo che la psicoanalisi può dare per favorire un cambiamento nell’istituzione psichiatrica. Sgombra il campo dal sostenere «la fantasia di una rivoluzione psicoanalitica», smonta anche l’idea che si possa «pensare a una strategia organica e articolata» e, in nome della creazione di uno spazio di riflessione, si perde un po’ nell’elencare una serie di metodologie psicoanalitiche da offrire come possibili modelli di intervento. Così conclude il suo testo: «Andrebbe abbandonata l’idea di una psicoanalisi che porta il proprio divano nell’istituzione, per sviluppare invece una psicoanalisi in grado di affrontare le istituzioni “senza divano” (senza il suo strumentario e il suo setting abituale) oppure che sappia sdraiare su un divano appropriato l’organizzazione stessa»6.
Una Psicoanalisi di cui la Psichiatria, se vuole, può servirsi
Il secondo testo che prendiamo in considerazione è di Jean-Daniel Matet, La Psicoanalisi, la follia e le espressioni attuali del mal-essere7, inserito anch’esso in una collettanea, una Conversazione clinica tenutasi in Francia nel 2018. Si noterà come accanto ai, sia pur esigui, riferimenti alla psichiatria il discorso complessivo sia molto più ampio e tocchi temi di forte rilevanza sociale e soggettiva. L’autore, partendo da Freud e da Lacan, contrappone sin da subito la clinica psicoanalitica di costoro (clinica che affonda le radici, nelle proprie invenzioni diagnostiche, anche nella psichiatria tedesca dell’epoca) all’«ateorismo rivendicato» appartenente all’impresa DSM8. E così aggiunge:
«Una psichiatria “scientista” si allontana da una concezione “soggettiva” della malattia mentale, combattuta tra un approccio socio-bio-statistico (la psichiatria dei territori) e un ricorso ai diritti dell’uomo per far beneficiare tutti degli stessi diritti, a discapito del fatto che un soggetto che si posiziona fuori discorso necessita di un approccio singolare che non sia inghiottito da un universale, da un approccio tecnologico dei trattamenti»9.
Inoltre, si tratta anche di saper cogliere che le forme del sintomo cambiano e che oggi le stesse rappresentazioni della follia non sono più quelle di un tempo. Un esempio su tutti è «Il tentativo di suicidio [che] appare come una delle forme contemporanee di un disagio che segnala uno smarrimento senza risorse»10. Oggi, «l’inquietudine dei cittadini aumenta in proporzione alla sparizione di ciò che orientava le esistenze (dal Nome-del-Padre alla bussola fallica), minacciando le solitudini di isolamento. […] quello che appariva come l‘eldorado del consumatore vira all’incubo»11.
Interessante e di insegnamento il discorso sulla crisi. Riportare la definizione che ne dà Miller (la crisi è «il reale scatenato, impossibile da padroneggiare»), ribadire che in crisi i quadri simbolici risultano inservibili, riferire della posizione di Lacan riguardo al sintomo («Io chiamo sintomo tutto quello che viene dal reale. E il reale è tutto quello che non va, che non funziona, che ostacola la vita dell’uomo e l’affermazione della sua personalità»), permette a Matet di rilevare quanto la nozione di crisi abbia aperto la strada a nuovi strumenti terapeutici e alla comparsa di «lineamenti di una nuova clinica»12. E se la clinica contemporanea si trasforma, «si tratta allora – si interroga l’autore – di un declino delle nostre categorie?».
Certo è che l’orientamento lacaniano ha permesso agli psicoanalisti di farsi luogo di una possibile parola dei soggetti psicotici, e di farsi partner per permettere loro «di ritrovare un posto nel discorso»13. Potremmo così dire, concludendo, che «psicotico e “normale” non fanno più eccezione alla condizione umana, raggiungendo lo sforzo di Lacan in Discorso sulla causalità psichica, poi di nuovo alla fine del suo insegnamento, per fare intendere “allo psichiatra che non c’è un’essenza differente del folle” che egli tratta»14.
Un’unica riflessione conclusiva. Dunque la psicoanalisi, nei suoi diversi orientamenti, è critica verso l’attuale andamento teorico-organizzativo della psichiatria. C’è una differenza però che vogliamo sottolineare. Non si tratta di curare o cambiare la psichiatria, come Perini afferma, riproponendo vecchi modelli, obsoleti e fallimentari. L’orientamento lacaniano, che scava nel solco tracciato da Freud, è di altro avviso: fare delle istituzioni psichiatriche uno dei possibili luoghi ove l’ascolto e la scommessa sulla parola del soggetto dell’inconscio apra ad un discorso nuovo, vivificante e desiderante. Ricordiamoci di quanto Carlo Viganò scriveva: «L’atto clinico non consiste nell’applicazione pura e semplice di un protocollo, ma implica la messa in gioco del desiderio dell’operatore»15.
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[1] J. Lacan, Di una riforma nel suo buco, La Psicoanalisi, 65, Roma, Astrolabio, 2019, p.14.
[2] M. Perini, Un approccio psicoanalitico alle istituzioni della salute mentale, in Incontrarsi o dirsi addio. Il misterioso salto fra Psicoanalisi e Psichiatria, a cura della Società Psicoanalitica Italiana, Alpes, Roma 2018, pp.325-345.
[3] Ivi, p.330.
[5] Ivi, p.337.
[6] Ivi, p.343.
[7] J.-D. Matet, La follia e le espressioni attuali del mal-essere, in Conversazione clinica, a cura di Jacques-Alain Miller, Macerata, Quodlibet, 2021, pp. 24-36.
[8] Ivi, p.26.
[10] Ivi, p.28.
[11] Ivi, p.29.
[12] Ivi, p.30-31.
[13] Ivi, p.33.
[14] Ivi, p.34.
[15] C. Viganò, Psichiatria non Psichiatria, Roma, Borla, 2009, p.208.
Il disastro della gestione della salute mentale in Italia
Giuseppe Oreste Pozzi
Membro AME, SLP e AMP – Milano – ottobre 2021
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Una questione di civiltà
Guerre e follia sono saldamente annodate e la produzione di morte e di segregazione non smette di proliferare. Se la follia è strutturale al soggetto ogni società cerca di capire come gestirla. In realtà la società cede spesso alla seduzione di poter far tacere la follia ed il soggetto che ne sarebbe portatore. Non ci sono più le navi dei folli, i manicomi, i trattamenti con la camicia di forza ma dal 1950 gli psicofarmaci hanno preso il posto di tali trattamenti. L’illusione chirurgico-chimica per eliminare la follia rimane impresa politicamente auspicabile. Eppure, dopo la L.180/78 sono prolificate iniziative sociali, istituzionali, di volontariato sostenute da professionisti seri che dimostrano la possibilità e l’utilità di includere i malati psichiatrici e le loro famiglie in un processo di cura e di assistenza civile e condivisibile. La complessità delle cure rimane ma un’alternativa clinica a psicofarmaci ed elettroshock, è possibile coinvolgendo ed includendo i diversi attori: il soggetto, la famiglia, differenti organizzazioni pubbliche e private. Si può gestire tale complessità ma la psicoanalisi in che modo intende condividere tale scenario?
Arte e medicina
Gli Stati, nell’era della globalizzazione, sono coinvolti nel dilemma di come bilanciare aspetti morali ed economici. Il fatto di relegare la psichiatria al servizio della giustizia penale non rende onore al sistema giudiziario e psichiatrico e diventa molto costoso. Da sempre la paranoia sociale genera alti costi e non solo in termini economici. Di fatto più ci si rivolge alla “scienza medica”, più segregazione si genera nel campo della salute mentale. Inoltre l’arte e l’attività espressiva sono utili e ricercate dai soggetti fragili, di cui psichiatria e neuropsichiatria infantile si occupano. Perché non riconoscerle offrendo loro un posto istituzionale più riconosciuto? Si può chiamare terapia solo la prescrizione farmacologica? L’arte è un’opportunità per la clinica e per gli operatori stessi a condizione che non la rinchiudano dentro il circuito psichiatrico. L’arte ed i suoi oggetti possono essere strumenti al servizio del soggetto (dell’inconscio). La psichiatria accaparrandosi il campo delle così dette “arti-terapie” mantiene saldamente il suo potere. La psicoanalisi, figlia della medicina, sa che il vero artista è avanti un passo allo psicoanalista ed anche avanti allo psichiatra. Perché non appoggiarsi all’arte, allora, invece di pietire un posto, un riconoscimento dalla scienza medica? Se il vero artista parla con l’inconscio a cielo aperto come fa lo psicotico perché non trovare accordi clinici solidali con gli artisti. Il sistema sanitario parla di Dipartimenti di Salute Mentale dove non di psichiatria ma tali dipartimenti sono diretti da psichiatri. Nessuno, inoltre, si sogna di andare a verificare l’effetto delle cure di questi Dipartimenti con particolare attenzione al lavoro delle strutture residenziali1 e questo è semplicemente scandaloso.
La formazione
Da anni, le comunità terapeutiche accreditate al sistema sanitario cercano psichiatri e neuropsichiatri infantili perché non ce ne sono. I Dipartimenti di Salute Mentale soffrono di mancanza di personale a tutti i livelli: medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali. L’emergenza covid ha messo in evidenza l’impreparazione generale, culturale ed organizzativa, relegando il mondo della “salute mentale” in un limbo sociale, come fosse sospeso lo Stato di Diritto per il terzo debole. Una chirurgia sociale che continua. E la formazione? Una questione delicata. Nelle Università dominano i saperi della psichiatria biologica e farmacologica con nosografie descrittive che eliminano la dimensione soggettiva ed ignorano i loro contesti di vita. Lacan nel suo testo “Di una riforma nel suo buco”2 il 3/2/1969 aveva messo in guardia sui livelli dell’insegnamento e della pratica. Liquida la psichiatria come sociatria e prende come esempio il dibattito in corso tra neurologia e psichiatria. Lacan ricorda che coloro che volevano separarle erano stati proprio gli stessi che si erano battuti per unirle. Due momenti delle solite intramontabili manovre di potere da baroni. In Italia, con le varie riforme sanitarie che stabiliscono la distinzione tra ospedale e territorio ritroviamo le stesse identiche manovre di potere. Gli psichiatri optarono per tenere il loro quartiere generale nell’ospedale accanto alla neurologia e lontani del territorio. Il ruolo e le funzioni del terapista della riabilitazione rinforza tale scelta di campo. Altra curiosità unica: ogni specializzazione medica, che opera nel privato accreditato, può decidere di accogliere e curare i pazienti che vi si rivolgono senza passare dagli specialisti degli ospedali pubblici. Per la Neuropsichiatria infantile e la psichiatria la spesa sanitaria e, quindi, il potere terapeutico, invece, è saldamente nelle mani degli specialisti del pubblico anche se la gran parte dei posti letto è tutta gestita dal sistema del privato accreditato.
“A livello della medicina, come altrove, preservare i benefici del sapere è la definizione infima che si possa dare della missione dell’Università. Essa implica la prelazione della formazione come effetto del sapere sul valore con cui lo quota il mercato. Certo nella medicina, come altrove, l’Università non deludeva in questo. Ma fu superata dalla sovversione di quello che si è prodotta da quello che chiamiamo mercato”3. C’è molto da fare allora, dal momento che il mercato si è preso come suoi gadget preziosi anche gli studenti che escono gioiosamente laureati delle nostre università-azienda. Jacques Alain Miller ha dato prova di saperci fare con una strada percorribile e non solo per l’Università che ha fondato ma anche per avere saputo orientare la formazione sulla strada della Conversazione clinica, della presentazione del malato nelle istituzioni e attraverso le testimonianze di passe. “La selezione sarà strutturalista oppure non sarà. Il soggetto della scienza non ha niente a che fare con quell’affettazione che fa aggio al mercato dell’influenza”4, continua Lacan con la sua perspicacia e lungimiranza clinica e sociale. Va da sé che le istituzioni psichiatriche potrebbero essere il punto di riferimento ma non esaustivo dell’inchiesta clinica e sociale necessaria che ci dovremmo proporre.
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[1] Non esiste letteratura nazionale né internazionale su tale argomento. Le uniche due tesi sul follow-up sono state assegnate a due studenti di Pavia Fabio Turconi e Marta Calogiuri, relatore Giuseppe Oreste Pozzi che ha potuto produrre qualche articolo presentato ai convegni di Mito&Realtà e disponibili sul sito anche di www.artelier.org.
[2] J. Lacan, Di una riforma nel suo buco, in La Psicoanalisi n°65, Astrolabio, 2019, pp.7-18.
[3] Ivi, p.14.
[4] Ivi, p.16.
Jean-Luc Nancy, l’intruso
Sergio Sabbatini
Membro SLP e AMP – Roma – settembre 2021
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Quando Jean-Luc Nancy pubblica, nel 2001, Il “c’è” del rapporto sessuale, non vuole contraddire l’assunto di Lacan “non c’è rapporto sessuale”. Fa piuttosto un’operazione analitica: se non c’è rapporto sessuale, che cosa c’è? Cosa farne dell’incommensurabilità dei due, della differenza dei sessi? Perché la differenza non è pura negatività, è apertura, a un altro discorso. È un’operazione analitica perché non si arresta di fronte al limite del non rapporto, della mancanza di conciliazione o di sintesi, non si compiace del “rimpianto nostalgico per la totalità perduta”1: “il rapporto è ciò che si apre tra due, non la fusione”2.
Come incontrare l’alterità dell’altro?
Di ciò che non si può dire, è bene non smettere di parlare. Non si deve smettere di spingere la parola, la lingua e il discorso contro questo corpo dal contatto incerto, intermittente, che si sottrae continuamente e che tuttavia insiste. Qui o là – possiamo starne certi – ne deriverà un corpo a corpo con la lingua, un corpo a corpo di senso, da cui potrà nascere, qua o là, l’esposizione di un corpo toccato, nominato, escritto fuori del senso, hoc enim3.
Un cardine del pensiero di Nancy è dare corpo alla differenza. Che procede nel suo filo: il rapporto sessuale è magari il paradigma del rapporto in generale, di ogni rapporto. Così anche la democrazia deve misurarsi con l’incommensurabile e saper fare dell’impossibilità di stare insieme il terreno comune che fondi lo stare insieme, il gesto del raccoglierci, scrive Federico Leoni in un toccante commiato e omaggio al maestro e amico filosofo4.
Jean-Luc Nancy è morto il 23 agosto scorso, a ottantuno anni. A cinquantadue anni un trapianto di cuore e poi un tumore: che abbia fatto del corpo, del suo corpo la cifra di una riflessione raffinata e profonda non può lasciare indifferente il lettore non prevenuto. Un grande filosofo che ha attraversato tanti ambiti della cultura: la politica, la filosofia classica, il corpo, l’amore, il sesso, l’arte. Sempre con rigore – la sua scrittura è tanto ricca quanto complessa. Eppure cura, gentilezza, umanità trasudano dalle sue righe.
Allievo e poi amico di Jacques Derrida, Nancy con Philippe Lacoue-Labarthe aveva meritato una menzione tra l’ammirato e il caustico, con rampogna finale, da parte di Lacan, nel seminario Ancora5. I due avevano scritto insieme un libro, Il titolo della lettera dedicato a L’Istanza della lettera nell’inconscio. Per metà una superba lettura, dice Lacan, magari ne fossero capaci i miei allievi, poi … lasciamo perdere.
Jean-Luc Nancy conosceva Lacan, via Derrida soprattutto, ma riteneva che il suo pensiero non fosse sufficientemente aperto al rischio di un’alterità non assimilabile, perché troppo orientato da preoccupazioni cliniche e istituzionali; in fondo lo psicoanalista era alla ricerca di una ‘cassetta degli attrezzi’ per la tecnica psicoanalitica.
“Quella strana cosa che è il corpo” è al centro delle sue riflessioni: come afferrare il corpo, come toccarlo, con una mano, con un piede, con le parole? E il corpo non è forse il nostro modo di accostare il corpo, che fa di noi stessi qualcosa di diverso da quello che incarniamo? 6
E poi, il tema dell’intruso:
L’intruso si introduce di forza, con la sorpresa o con l’astuzia, in ogni caso senza permesso e senza essere stato invitato. Bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero, che altrimenti, perderebbe la sua estraneità. Se ha già diritto di ingresso e di soggiorno, se è già aspettato e ricevuto senza che niente di lui resti al di là dell’attesa e dell’accoglienza, non è più l’intruso, ma non è più nemmeno lo straniero. Escludere quindi ogni intrusione dalla venuta dello straniero non è logicamente accettabile, né eticamente ammissibile.
Accogliere lo straniero dev’essere anche provare la sua intrusione7.
E, qualche riga dopo, pag. 13:
[…]io dunque ho ricevuto il cuore di un altro, quasi dieci anni fa. Me l’hanno trapiantato. […] Per vivere allora, era necessario ricevere il cuore da un altro.
Nel suo prezioso intervento per la morte di Jean-Luc Nancy8, Cristiana Cimino sottolinea come possa accadere che un pensiero attraversi la carne di chi lo legge, lo incontra. È il caso di Nancy, scrive, dal 1992 un “trapiantato”, che aveva fatto dello straniero inatteso e senza inviti, dell’intruso che è tale, che è intruso, perché non perde la sua estraneità. Ebbene, aggiunge, Nancy «l’intruso ce l’aveva cucito nel petto … corpo estraneo al pensiero stesso ed estraneità che si rivela “al cuore” di ciò che dovrebbe essere più familiare»9.
Nancy, il filosofo “del corpo”, sottolinea Cristiana Cimino, scriveva non del corpo, ma il corpo. Una torsione e un punto scabroso: scrivere il corpo non per significantizzarlo ma per raggiungerlo, per toccarlo. L’esistenza è il corpo, l’essere del corpo.
Nell’impossibilità di un’armonia con l’intruso, con l’estraneo, si apre una soglia, un tra, che si affaccia all’alterità: che sia la donna, il migrante, il diverso eppure umano, il non umano, l’animale. Il corpo è l’intruso che ci spinge a condividere quel che si presenta incondivisibile, l’unica via che può salvare l’uomo dalla catastrofe. Cristiana Cimino trova su questo snodo delle risonanze con il Seminario XX Ancora, di Lacan. E, in qualche modo sembra indicare la via dell’inconscio, della libera associazione: si deve poter parlare di ciò di cui non si può parlare, a partire dall’estraneità, dall’incondivisibile che è ciò che paradossalmente ci unisce.
Concludo rinviando alla Teoria di Torino sull’analista della Scuola di Jacques-Alain Miller10: la Scuola di Lacan è una formazione collettiva che si fonda su un paradosso: una formazione collettiva che si regge sulla solitudine soggettiva dei suoi singoli membri. Nel linguaggio di Jean-Luc Nancy, il filosofo gentile, saper accogliere l’intruso che ciascuno di noi è, per se stesso e per gli altri, con gli altri.
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[1] M. Bonazzi, L’amore è il tocco dell’aperto (2009), in J.-L. Nancy, Sull’amore, Torino, Bollati Boringhieri, p.6.
[2] J.-L. Nancy, La comunità inoperosa (1986), Napoli, Cronopio, 1992, p.125.
[3] J.-L. Nancy, Corpus (1992), Napoli, Cronopio, 2004, p.51.
[4]F. Leoni, https://www.doppiozero.com/materiali/jean-luc-nancy-il-pensiero-del-corpo.
[5] J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, (1972-1973), Ancora, cap.VI, “Dio e il godimento de La Donna”, Torino, Einaudi, 2011, pp.62-63
[6] F. Leoni, cit.
[7] J.-L. Nancy, L’intruso, 2000, Napoli, Cronopio, p.11 .
[8] C. Cimino, https://www.massenpsychologie.com/2021/09/02/per-jean-luc-nancy/.
[9] Ibid.
[10] https://www.slp-cf.it/teoria-torino-sul-soggetto-della-scuola/.
Redivivus – Lacan inedito, un regalo monumentale*
Agnès Vigué-Camus
Membro ECF e AMP – settembre 2021
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Lacan, apprendiamo in questo numero straordinario (*) di Ornicar?, non amava parlare del passato1. Senza dubbio gli sarebbe piaciuto sfogliare questo volume in cui l’espressione “una volta” non è isolata, avvolta nella luce, ma diffusa in dettagli divini che, messi insieme, circoscrivono la logica di una vita.
Per costruire questo numero, una pluralità di documenti inediti sono stati estratti dagli archivi dove sarebbero potuti rimanere sepolti per sempre: appunti, manoscritti, lettere, resoconti di presentazioni dei malati, ma anche delle testimonianze fatte e raccolte per la pubblicazione. Molti di questi documenti originali sono riprodotti in formato immagine, il che dà la sensazione di contatto con la grafia singolare di Lacan. Un tale progetto non sarebbe stato possibile senza il desiderio di Jacques-Alain Miller, Christiane Alberti e dell’equipe responsabile del numero per offrire finalmente questa creazione monumentale al lettore.
L’effetto immediato di questa ampia impresa è stato quello di infrangere la leggenda nera dello psicanalista capriccioso, assetato di potere e di denaro. Fin dal primo documento, datato 1934, il profondo “Quaderno dei sogni”, non si tratta di un maestro, ma di un analizzante al lavoro, attento alle modalità di progressione della sua analisi, che annota i suoi sogni raccogliendo preziosamente le zone di opacità. Un altro prezioso documento è il manoscritto incompiuto “Mise en question du psychanalyste”, risalente al 1963, un probabile tentativo di sintetizzare i suoi anni di insegnamento, abbandonato a favore del progetto di raccolta che sarebbe diventato gli Scritti. In esso possiamo vedere come il movimento dell’uomo non tenda alla costruzione di un’opera, ma realizzi un movimento inverso: «Ci sono pensatori che amano dire: “Ho fatto un errore, ricomincio in un altro modo”. […] Lacan non lo fa, ed è piuttosto attraverso deformazioni di tipo topologico che questo succede, queste trasformazioni interne, si gonfia e si sgonfia. Lacan, è come se rinascesse ogni mattina!»2.
L’uomo che sfugge alla sua persona rinasce, in un certo senso, pagina dopo pagina, giacché questo pensatore eccezionale che attirava le folle ai suoi Seminari, appare lì nella complessità dei legami con le persone più vicine a lui: famiglia, allievi e interlocutori, cercando di continuare il suo insegnamento nelle sue lotte contro il dogmatismo. Sono momenti della sua vita, poco noti, che si ritrovano chiariti, indissociabili dai momenti cruciali per la psicoanalisi.
Ma ciò che è prezioso, messo a disposizione del pubblico, è la singolarità del legame dell’uomo con la sua ricerca che si percepisce, per esempio, in una lettera a Jacques Aubert scritta durante un viaggio a Boston. Egli nota che gli viene chiesto un lavoro in ogni momento. Eppure, scrive, se lavora enormemente, non è completamente preso dalle conferenze che gli si chiede di fare: «Come sono fatto, mi scivola tra le dita come l’acqua sulle piume di un un’anatra. Continuo a pensare ai miei nodi (che intasano la mia immaginazione) e a Joyce (di cui mi importa ancora qui)»3.
Lacan è accostato il più vicino possibile alla causa che lo anima, catturato dalle testimonianze di quelli che sono stati i suoi analizzanti. Alcuni di loro sono diventati psicoanalisti e membri eminenti dell’ECF, e trasmettono, in una serie di articoli, i punti vividi del loro incontro con il loro analista. Dal testo di Éric Laurent, conserveremo l’effetto di un sorriso, quello che Lacan gli rivolge dopo aver tenuto un intervento al congresso di Caracas: «Era lo stesso che Lacan si era rivolto a me qualche anno prima, in un congresso dell’EFP a Strasburgo. […] [Lacan] mi ha fermato […] e mi ha detto: “Il suo intervento, l’ho compreso…”» «Ne avevo tratto l’idea che lo sforzo di chiarezza non è incompatibile con il fatto di voler essere allievo di Lacan e che la comprensione da cui bisogna guardarsi nella clinica non è quella che riguarda il sapere esplicito»4. Dall’espressione del viso, sempre tinta di mistero, un sorriso indica il piacere. Segna, qui, l’accoglienza gioiosa del lavoro realizzato, un’elucidazione del reale della clinica senza lacanismi. Un sorriso può fare interpretazione, segnando una cesura, un’apertura verso una ricerca futura, l’analisi, nella misura in cui essa prolunga questa esperienza inaudita per un corpo vivente per il fatto di essere nella parola.
Il valore epistemologico ed etico di questa testimonianza è una delle perle di questo volume che, non appena lo si inizia a leggere, non ti lascia più andare.
[*] Il numero fuori-serie della rivista Ornicar ?, Lacan Redivivus, diretto da Jacques-Alain Miller & Christiane Alberti, pubblicato dalle edizioni Navarin nel 2021, è disponibile per la vendita online sul sito dell’ECF-Échoppe.
Traduzione: Adele Succetti
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*Articolo pubblicato in francese e disponibile su: https://www.hebdo-blog.fr/redivivus-lacan-inedit-cadeau-monumental/.
[1] Cfr. J.-A. Miller, « Aux côtés de Jacques Lacan », conversations avec F. Jaigu, in J.-A. Miller & C. Alberti (s/dir.), Ornicar? hors-série. Lacan Redivivus, Paris, Navarin, 2021, p.317.
[2] Ivi, p.318.
[3] J. Lacan, Lettre de Jacques Lacan à Jacques Aubert, 1975, in J.-A. Miller & C. Alberti (s/dir.), Ornicar? Hors-série, cit., p.214.
[4] É. Laurent, Apprendre à lire, ou le trajet d’une lettre, in J.-A. Miller & C. Alberti (s/dir.), Ornicar? hors-série, cit., p.370.
Tra due soglie*
Vanessa Sudreau
Membro ECF e AMP – settembre 2021
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«Sta a voi essere lacaniani, se volete»
Jacques Lacan, La conferenza di Caracas
Aux confins du Séminaire
Che rientro mozzafiato! Dopo il nuovo grande cantiere lacaniano aperto da Jacques-Alain Miller nell’aprile 2021, ecco che, solo pochi mesi dopo, Aux confins du Séminaire (*)viene pubblicato da Navarin. I confini sono i limiti estremi di un territorio. Nella sua gamma semantica, questa parola evoca sia la profondità che il bordo. È nell’assenza di un fondo – non c’è vicolo cieco nella topologia lacaniana del soggetto – che i confini, i litorali e gli altri bordi assumono un valore così grande per noi. I confini hanno solo in parte il significato di confini storici, piegandosi alle necessità epistemologiche della polarizzazione: dalla preistoria del suo Seminario nel 1952 a quella della Cause freudienne 1 all’epoca de La conferenza di Caracas. Questo viaggio non traccia un percorso completo, ma un percorso tra due punti di apertura, due momenti in cui Lacan fa una scommessa avanzando verso degli allievi in divenire. Così, Aux confins… è il viaggio di un salto tra due soglie.
I primi e gli ultimi discorsi del Dottor Lacan, dunque, in pubblico, cioè con i suoi allievi che egli usava, come disse nel 1980, allevarli [lui stesso]»2. Al limite estremo del tempo in cui si trovava nel 1980, in un gesto politico di apertura (spaziale e temporale), Lacan stesso sembrava rendersi conto che ora avrebbe avuto degli allievi-lettori – tanto più lettori perché non li aveva mai visti ascoltarlo3. Questo mostra fino a che punto l’insegnamento vivo, attraverso la parola in atto che è inseparabile dal corpo, era la sua preoccupazione, la sua tenaglia. A Caracas, quindi, è venuto a vedere i suoi lettori che lo ascoltano prima di lasciarli leggere, forse scommettendo che le letture a venire sarebbero state segnate dalla voce, dal corpo e dallo sguardo.
Per diverse generazioni di allievi-lettori, compresa la mia, che non hanno avuto la gioia di incontrarlo in effigie, la lingua del Dottor Lacan trasmette stranamente la cosa viva che dettaglia. Prendiamo questo singolo frammento dai Confins… nel Seminario Sull’Uomo dei Lupi in cui Lacan analizza il famoso caso freudiano afferma che: «Il bambino è lo straniero che sfugge all’ordine in cui ci si riconosce»4.
Questa frase mi ha colpito. Infatti, non ci dice tutto, il passo del lettore è necessario, non dice tutto, ma nomina il caso così da vicino che lo fa apparire, come solo gli artisti riescono a rendere presente qualcuno che non c’è, che non c’è più, o che non esiste. Questa frase ha una portata generale sull’infanzia come tempo logico (quello che chiamiamo l’infantile), situa un punto di esilio del soggetto (il reale), delinea il movimento nel processo di soggettivazione (dinamico)… Questa frase, un vero e proprio verso clinico, non è affatto ornamentale, nella sua stessa bellezza sta la sua esattezza, cioè la sua efficacia orientatrice. Non si tratta quindi tanto di una correttezza che direbbe ciò che è stato – «ciò che accade e si agita sulla scena non è ciò che accade»5 -, ma di un processo in cui didattica e poetica non sono separate. Se è necessario saper isolare l’S₁ dall’S₂ per le necessità della Causa, non è certo per negare i poteri evocativi del dire, né per far consistere gli S₁ al posto della Verità.
Ritorniamo ai confini di questo bambino straniero in fuga dall’ordine, quello di cui Lacan ci dice, qualche pagina dopo, che il «dramma [del suo] sviluppo» sta in una «sessualità divisa in schegge». Così si diceva, nel 1952, la preistoria del trauma.
È il poema di Lacan, cioè il suo insegnamento, che ritroviamo in ogni momento nel flusso di queste righe, un poema che attinge il rigore del concetto dai canali del godimento, della lalingua, quell’habitat dell’essere parlante. Anche in quest’opera serrata e propedeutica in cui il testo freudiano è seguito passo dopo passo, lo stile ad impatto di Lacan ci attraversa fino al punto in cui la sua lingua tocca il corpo del lettore, che pure insegna.
Se poteva dire di se stesso che non era “poetassez”6, Lacan ripudiava tuttavia «questo certificato: non sono un poeta, sono un poema. E che si scrive malgrado abbia l’aria di essere soggetto»7. È un poema che egli fu e di cui ci lascia il testo, con la responsabilità di leggerlo, di «approfittare di quello che sembra essere l’approccio del [suo] nodo»8 e di utilizzarlo per trovare, per il proprio caso, «la nota sensibile»9 in senso musicale.
[*] Il libro di Jacques Lacan, Aux confins du Séminaire, a cura di Jacques-Alain Miller, pubblicato da Navarin nella collana La Divina nel 2021, è disponibile per la vendita online sul sito ECF-Echoppe.
Traduzione: Adele Succetti
*Articolo pubblicato in francese e disponibile qui: https://www.hebdo-blog.fr/entre-deux-orees/.
[1] “Vengo qui prima di lanciare la mia causa freudiana”, diceva Lacan a Caracas (J. Lacan, “La conférence de Caracas”, Aux confins du Séminaire, testo stabilito da J.-A. Miller, Parigi, Navarin, coll. La Divina, 2021, p.82).
[2] Ivi, p.81.
[3] Cfr. Ivi., p. 82.
[4] J. Lacan, Le Séminaire, Sur l’Homme aux loups, in Aux confins du Séminaire, cit., p.25.
[5] J.-A. Miller, L’orientation lacanienne. Un effort de poésie, enseignement prononcé dans le cadre du département de psychanalyse de l’université Paris 8, cours du 13 novembre 2002, inédit.
[6] J. Lacan, Le Séminaire, livre XXIV, « L’insu que sait de l’une-bévue s’aile à mourre », leçon du 17 mai 1977, Ornicar ?, n°17/18, printemps 1979, p.22.
[7] J. Lacan, «Prefazione all’edizione inglese del Seminario XI”, in Altri Scritti, Torino, Einaudi, 2013, p.564.
[8] J. Lacan, « La conférence de Caracas », op. cit., p. 83.
[9] J. Lacan, Le Séminaire, Sur l’Homme aux loups, op. cit., p. 29.