Éric Laurent, Membro AME dell’ECF e dell’AMP, Parigi

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*L’articolo è stato pubblicato nel numero 46 di Mental, Revue Internationale de psychanalyse, intitolato Écologie lacanienne (novembre 2022)

Per Freud, la posizione dello scienziato era un ideale da raggiungere. All’inizio del suo intervento a Vienna, alla fine del secolo, Freud si poneva come uno scienziato che desiderava collocarsi tra gli scienziati e portare la nuova neuropsicologia che stava inventando nel campo della scienza. Lo dimostra il suo “Progetto di una psicologia” [1] del 1895. Verso la fine della sua vita, negli anni Trenta, nel suo dialogo con Einstein, nelle loro lettere in comune difesa della pace, lo scienziato e lo psicoanalista condividevano lo stesso ideale di verità. Gli scienziati a cui Freud era particolarmente interessato – Galileo, Darwin, i suoi maestri di fisica, Brücke e Helmholtz – non gli sembravano rientrare nel discorso psicoanalitico in quanto tale. La figura dello scienziato è un culmine incontestabile della civiltà, ma la sua posizione non è accompagnata da una sublimazione che sarebbe specifica per lui, come per l’artista o l’asceta religioso. Rimane isolato nella purezza della sua ricerca della verità. Egli incarna una figura della rinuncia pulsionale a cui la civiltà condanna l’uomo senza che il suo posto sia particolarizzato. “C’è una cosa di cui Freud non ha parlato dato che per lui era un tabù – la posizione dello scienziato” [2].

La passione dello scienziato

Non è questa la posizione di Lacan, che scrive la sua tesi all’inizio degli anni Trenta, dopo la carneficina della Prima guerra mondiale e nel momento in cui si prepara la seconda. La generazione di pensatori come Husserl [3], nella sua analisi della Crisi della civiltà, già all’epoca metteva in discussione la scienza e le terribili conseguenze che poteva portare. Il puro trionfo scientista dello splendore della ragione non è più sostenibile.

Lacan farà dello scienziato un oggetto di studio psicoanalitico. Non era interessato alla psicologia degli scienziati, ma alla loro possibilità di produzione nella civiltà. Non sono un ideale, ma una figura del desiderio, una figura particolare del destino del desiderio. Partirò da una formulazione particolarmente sorprendente data da Lacan nel 1960: “il desiderio dell’uomo, a lungo sondato, anestetizzato, addormentato dai moralisti, addomesticato dagli educatori, tradito dalle accademie, si sia molto semplicemente rifugiato, rimosso nella passione più sottile, e anche la più cieca, come ci dimostra la storia di Edipo, la passione del sapere. È lei che sta prendendo un’andatura di cui non sappiamo l’ultima parola” [4]. Questa frase proviene dall’ultima sessione del Seminario L’etica della psicoanalisi, il 6 luglio 1960, annunciata con “Una parola di conclusione”. È un modo per annodare quello che Lacan ha chiamato altrove lo “scatenamento” della scienza e il desiderio, che rende più complessa la correlazione tra la scienza e la “forclusione del soggetto”.

Torniamo al ragionamento di Lacan alla fine del Seminario VII, che articola in modo molto preciso psicoanalisi e modernità. È una delle tante risposte che Lacan ha dato alla domanda cruciale sull’articolazione tra la psicoanalisi e l’epoca della scienza: la psicoanalisi è una scienza o il suo rovescio? Quale sarebbe una scienza che includa la psicoanalisi?

Questa passione è una passione mortale

In ogni caso, alla fine del Seminario sull’etica, Lacan afferma una posizione molto chiara. Si rivolge direttamente agli scienziati del suo tempo che sognano di dare alla psicoanalisi lo status di scienza umana. Essa si distinguerebbe per il suo oggetto proprio: il desiderio. “Il campo che è il nostro per il fatto che lo esploriamo viene a costituire in certo modo l’oggetto di una scienza. La scienza del desiderio, mi direte, entrerà nel quadro delle scienze umane?” [5] Lacan prende una posizione radicale su questo punto: la psicoanalisi non deve entrare in questo quadro. La sua etica gli permette di denunciare, nell’insieme mal composto delle suddette scienze umane, un unico punto in comune: un “misconoscimento sistematico e di principio” [6].

“Le scienze umane non hanno (…) altra funzione che quella di essere una branca, (…) del servizio (…) di poteri più o meno traballanti” [7]. Con questa affermazione, Lacan generalizza all’insieme delle scienze umane ciò che Canguilhem [8] diceva della psicologia: il pericolo di “scivolata (…) dal Panthéon alla Prefettura di Polizia” [9]. Nella distinzione di Lacan tra moralisti e accademici, troviamo un inizio di quella che sarà l’opposizione tra discorso del padrone e discorso universitario. Egli distingue le scienze umane da un lato e il campo della scienza dall’altro. E pone una domanda: quale scienza sarebbe “al posto che designo come quello del desiderio?” [10].

Dopo aver scartato ogni pretesa di “scienza umana”, Lacan avanza che la scienza del desiderio è la scienza stessa, quella sublimazione perfetta che compie “ogni sorta di cosiddette conquiste” [11]. Questa sorprendente proposizione è accompagnata da una conseguenza. Il desiderio, tradito dal padrone, dagli educatori e dalle accademie, è diventato passione del sapere, la “passione più sottile, e anche la più cieca, come ci dimostra la storia di Edipo” [12]. È una passione mortale. Come Jacques-Alain Miller ha potuto mostrare altrove, Lacan fa del sapere in quanto tale il vettore della pulsione di morte. Il padrone si è lasciato sedurre dalla scienza e, quindi, “abbiamo ora questa vendetta addosso” [13]. La parola vendetta è forte e designa la vendetta del desiderio nel suo aspetto mortale.

La posizione dello scienziato è quindi particolarmente divisa. Da un lato, è la figura stessa dell’emancipazione di una passione, una figura della disinibizione del desiderio sotto forma di passione. Questa posizione è compatibile con l’affermazione che non esiste “desiderio di sapere” nell’umanità. Perché proprio la scienza, in prima istanza, non può che misconoscere le conseguenze della sua azione. E tutti i tentativi di incatenarla in nome di vari “principi di precauzione” si rivelano inutili. Il desiderio di sapere, come lo rivela la psicoanalisi, si differenzia dalla passione di sapere in quanto non deve misconoscere le conseguenze della sua azione.

Inibizione, sintomo, angoscia dello scienziato

Il primo effetto di aprèscoup della scienza sulla posizione dello scienziato dopo la disinibizione galileiana del XVII secolo è, tre secoli dopo, lo sviluppo di armi letali per la specie umana: l’arma atomica e l’arma biologica. Gli scienziati si sono angosciati nella prima metà del XX secolo. Tuttavia, è alla fine del secolo che appare una nuova conseguenza soggettiva. Gli scienziati non hanno potuto evitare il confronto con quello che Lacan chiamava il sintomo della scienza, il suo impossibile e il suo reale. La scienza, impossibile da fermare, al di là delle armi letali con cui ha ingombrato la civiltà, ha alterato le possibilità stesse del pianeta per fornire un ambiente di vita possibile alla specie umana. È il fondamento di quello che possiamo definire l’approccio lacaniano alla nostra epoca ecologica.

Inibizione, sintomo, angoscia, sono le tre dimensioni attraverso le quali lo scienziato in quanto tale diventa oggetto di studio per la psicoanalisi, fermo restando ciò che può emergere esaminando, caso per caso, le conseguenze soggettive dell’esercizio della passione di sapere che pone un soggetto di fronte alla mancanza radicale nell’Altro. L’Altro non sa ciò che la scienza scopre, prima che la scoperta lo riveli. La responsabilità del ricercatore è quindi piena e intera, ritorna come sintomo particolare che può sopraffare chi se ne fa carico.

La disinibizione dello scienziato

Il “soggetto della scienza” è un concetto proposto da Lacan come una delle conseguenze dell’ascesa allo zenit della civiltà sia della scienza che dell’oggetto a. La scienza in quanto tale è stata introdotta nella civiltà nel XVII secolo. Prima di tutto si è affermata con la fisica e poi è penetrata in tutti i campi e in tutti gli aspetti di questa civiltà. Lacan ha qualificato questa estensione come scatenamento, come rottura di tutte le catene con cui il discorso del padrone aveva cercato di porre dei limiti all’approccio scientifico al mondo. Abbiamo esempi storici di questi limiti imposti nell’imperatore della Cina che proibì ogni produzione di sale, al di là delle cifre auspicabili, per mantenere la pace sociale, l’armonia confuciana della società, indipendentemente dalle argomentazioni dei mandarini che imploravano per il massimo della produzione in nome della possibilità tecnica. [14]

Al contrario, nel secolo di Galileo, il Granducato di Toscana ebbe un ruolo a Firenze nell’avvicinare Galileo e la corporazione degli scavatori di pozzi per esplorare pratiche di perforazione più profonde. Questo legame garantirà nuovi sviluppi teorici e pratici, proseguiti dagli allievi di Galileo come Torricelli, contribuendo a far emergere dal guardaroba teorico la nuova fisica.

La rottura di queste catene significa che ora è solo il discorso della scienza a imporre i suoi limiti al potere. Abbiamo assistito alla trasformazione accelerata di ciò che restava del discorso marxista in Cina dal momento in cui “l’officina del mondo” ha imparato la produzione tecnica più avanzata. Dal momento in cui la scienza detta la sua legge agli altri discorsi, le conseguenze sono duplici. Una è propriamente la promozione del “soggetto della scienza”, in tutti gli ambiti, cioè un soggetto svuotato dei saperi precedenti a quello della scienza, svuotato della tradizione, svuotato degli imperativi morali. Lacan sottolinea una conseguenza fondamentale di ciò. Il soggetto della scienza è disincarnato, esente da qualsiasi incarnazione in uno o più corpi. Quando si vuole incarnarlo, sorgono “ostacoli epistemologici” [15]. Affinché la scienza conservi il suo potenziale di elucidazione, deve mantenere questo regime di soggetto nuovo, un soggetto vuoto come quello prodotto dall’operazione del dubbio iperbolico di Cartesio. In questo senso, l’articolo di Kurt Gödel del 1931 “Sulle proposizioni formalmente indecidibili dei Principia mathematica e di sistemi affini” [16], fa valere l’impossibilità di incarnare tale soggetto in un sistema di regole formali, senza lasciare un resto. Nei sistemi formali restano proposizioni indecidibili che non possono essere ridotte. Specificando i limiti dell’assiomatica, K. Gödel precisa l’impossibile che inscrive nei sistemi simbolici il puro soggetto della deduzione.

L’altro effetto della scienza, oltre a questo soggetto disincarnato, è quello di introdurre nei discorsi la categoria del caso, in un’accezione dissociata dai suoi significati umani. Prima della fisica matematica, le cause di Aristotele erano ancora legate alla grammatica della lingua [17]. La scienza moderna rompe i legami con ciò che era ancora legato ai corpi parlanti.

L’angoscia dello scienziato

Le crisi d’angoscia dello scienziato in quanto tali appaiono innanzitutto nello scientifico degli anni Sessanta, che vive la prospettiva di una guerra totale e distruttiva per l’umanità – protetta solo dal discorso della “deterrenza”, dall’angoscia e dal senso di colpa. Il sessantesimo anniversario della crisi dei missili di Cuba dell’ottobre 1962 ci ricorda quel momento inaugurale in cui, per la prima volta nella sua storia, l’umanità si è trovata di fronte alla possibilità di una guerra totale e totalmente distruttiva. L’apocalisse fu scongiurata e gradualmente dimenticammo, tranne che nel museo di Hiroshima, la minaccia militare che incombeva. Il timore si è spostato sui rischi più limitati posti dall’industria nucleare civile. L’ottobre 2022 ha riportato in primo piano la doppia minaccia: militare, con la minaccia di un presidente russo meno prudente di Krusciov, e civile, con gli incidenti scampati quotidianamente nelle centrali nucleari civili dell’Ucraina.

Di fronte a questa doppia minaccia, il silenzio dei fisici contrasta con le dichiarazioni degli anni Cinquanta e Sessanta. Va detto che per il momento sono concentrati sull’emergenza climatica. L’avventura intellettuale di Robert Oppenheimer resta a testimoniare l’angoscia degli scienziati. L’eccellente biografia che Ray Monk [18] gli ha dedicato è da lodare. È un punto alto dopo altre biografie importanti. [19] Robert Oppenheimer è stato determinante nell’invenzione della bomba atomica e, una volta usata su Hiroshima e Nagasaki, ne è rimasto molto turbato. Si è chiesto cosa avesse fatto. Come soggetto diviso, preso tra due fuochi estremamente diversi, era una personalità lacerata: “A 38 anni, conservava i segni di un ragazzo ricco, viziato e capriccioso, il cui comportamento depressivo a volte sconfinava nell’imprevedibile. A volte sembrava impazzito” [20]. Sposato con una militante comunista americana nel 1940, aveva come amante un’altra universitaria, anch’essa membro del partito comunista, che gli cavava le parole di bocca e che aveva rapporti con agenti del KGB. Convocato davanti alla Commissione per le attività antiamericane, Oppenheimer denunciò, attraverso i paradossi della colpa, alcuni suoi colleghi. Mosso da un notevole orgoglio, è stato anche un cattivo compagno, come a volte lo sono alcuni scienziati. Prima delle denunce, la sua posizione di fisico e direttore del Progetto Manhattan non lo aveva risparmiato dalle accuse di brutalità nelle sue preferenze. Allo stesso modo, quando divenne direttore dell’Institute for Advanced Study di Princeton, i matematici lo sospettarono di molteplici manovre che favorivano i fisici, ed egli non smise di avere rapporti conflittuali con loro. [21]

Così, reinserita nel suo contesto, l’angoscia degli scienziati solleva la questione, centrale per il futuro, del destino delle relazioni tra la civiltà globalizzata e la scienza che è diventata la sublimazione essenziale del desiderio. “L’organizzazione universale ha a che fare con il problema di sapere che cosa fare di questa scienza in cui si persegue manifestamente qualcosa la cui natura le sfugge. La scienza, che occupa il posto del desiderio, non può essere una scienza del desiderio che nella forma di un formidabile punto interrogativo (…). In altri termini, la scienza è animata da qualche misterioso desiderio, ma non sa, non più di nient’altro nell’inconscio, quel che vuol dire questo desiderio” [22].

L’angoscia degli scienziati, che prima era stata quella dei fisici, è stata poi quella dei biologi, di fronte alla sempre più efficace messa a punto di batteri inarrestabili nei loro micidiali effetti distruttivi. “Fatto sta che a loro è venuta una tipica crisi di angoscia e che è stata scagliata una sorta di interdizione, perlomeno provvisoria. Si sono detti che bisognava pensarci su due volte prima di spingere oltre certi lavori sui batteri. E tuttavia, che sollievo sublime sarebbe se d’un tratto avessimo a che fare con un vero e proprio flagello, un flagello uscito dalle mani dei biologi. Sarebbe veramente un trionfo” [23]. L’ironia sul trionfo ha molteplici risonanze che dovrebbero essere spiegate. Sottolineerò in particolare ciò che Lacan deduce da una tipica crisi d’angoscia. Essa produce divieti, come dimostra la logica clinica della fobia. Negli anni ‘70, abbiamo avuto numerose richieste di moratoria sulla ricerca batteriologica. La portata dell’invenzione di armi biologiche di distruzione di massa di Saddam Hussein da parte dei servizi americani testimonia bene l’eco di questi timori. Va ricordato, naturalmente, che erano stati aggiornati dall’uso di armi chimiche da parte del tiranno iracheno sulla popolazione curda del suo Paese. La nostra pandemia di Covid-19, che sta scuotendo il pianeta da tre anni, è lì a mostrare chiaramente la doppia faccia degli effetti della scienza. Da un lato, il trionfo dei vaccini a RNA-messaggero, una novità scientifica che solo la pandemia ha reso possibile, vista la quantità di denaro in gioco; dall’altro, la dimostrazione dell’origine della pandemia nel mercato di animali selvatici di Wuhan che, anche se convincente, lascia sempre incombere la tesi della fuga di un virus dal laboratorio P4 di ricerche batteriologiche, troppo vicino al mercato incriminato per non alimentare le tesi anti-scienza.

Ma l’angoscia degli scienziati indica la strada. Al di là dei tentativi di divieti che essa genera, l’angoscia richiede un dibattito pubblico sul posto della scienza nel nostro mondo. È allo stesso tempo l’unica fonte di certezza e fonte di un rifiuto che gli irriducibili no-vax mostrano. La tentazione di non mangiare il libro del sapere è forte. Più che il misconoscimento e il rifiuto, l’angoscia, se è costituente, può essere l’impulso che apre un mondo chiuso. Lacan indicava questa possibilità, che oggi trova finalmente la sua realizzazione nell’effetto dei rapporti IPCC [24] sugli effetti del cambiamento climatico. “L’avvenire ce lo rivelerà, e forse dalle parti di coloro che, per grazia di Dio, hanno mangiato più di recente il libro, voglio dire di coloro che non hanno esitato a scrivere con i loro sforzi, e persino con il loro sangue, il libro della scienza occidentale – non per questo il libro è meno commestibile” [25].

Dobbiamo imparare dagli stessi scienziati come mangiare il libro della scienza. Gli scienziati, coloro che fanno scienza, testimoniano che non si può vivere impunemente nel bagno del discorso della scienza. Per questo si paga un certo prezzo, che la manifestazione soggettiva dello scienziato, legata alla sua stessa attività, porta alla luce.

Lo scienziato e il suo sintomo ecologico

L’angoscia dello scienziato, sorta con la creazione della bomba atomica, si è rinnovata quando dei fisici, all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, si sono resi conto degli effetti del riscaldamento globale sull’evoluzione del clima. Le loro previsioni, riprese e sviluppate da un’intera comunità scientifica multidisciplinare, riunita sotto l’egida dell’IPCC, hanno permesso di trasmettere l’angoscia degli scienziati a un corpo sociale sempre più vasto, con le più svariate conseguenze soggettive, che vanno dalla pura e semplice ignoranza al rifiuto delle previsioni scientifiche e, con esso, della scienza stessa. Ma la considerazione degli effetti del riscaldamento globale apre una dimensione che l’effetto delle armi di distruzione di massa aveva ancora velato. È l’attività umana in quanto tale, al di là di quello che può prodursi nell’antagonismo delle guerre, a mettere in pericolo la specie umana. Quello che è stato battezzato l’Androcene è la messa in evidenza della pulsione di morte al centro dell’attività umana plasmata dalla scienza in tutti i suoi aspetti.

È questa dimensione che Lacan scorge nei primi dibattiti ecologici degli anni Settanta. La evidenzia nel suo testo “Lituraterra”, che peraltro inizia con l’evocazione della minaccia atomica rappresentata dall’armamento nucleare globale. “Il mio saggio, in quanto potrebbe attribuirsi un titolo di siberietica, non avrebbe dunque visto la luce se la diffidenza dei sovietici mi avesse lasciato vedere le città, le industrie e le installazioni militari che per loro danno prestigio alla Siberia, ma questa è soltanto una condizione accidentale, quantunque forse lo sia di meno se la si chiama accidentale per indicare l’accidente di un ammassamento dell’ancidere.” [26] Ma non è questo richiamo della minaccia di distruzione atomica che Lacan ricorda in quel testo. Dopo aver stigmatizzato il fascino esercitato dai calcoli formali della scienza in una corrente della letteratura moderna – qui si tratta dell’Oulipo dell’epoca – constata che la scienza contemporanea comincia a prendere in considerazione gli effetti prodotti dalla sua cifratura, risvegliandosi dal suo fascino formalista. Ciò che si produce come effetto diventa il punto centrale. Non si tratta più della contrapposizione tra formalismo e realismo, ma di rendersi conto che la scienza indica la strada tenendo conto degli effetti di produzione del suo sistema simbolico, dei sintomi che produce e che, appunto, impediscono ai sistemi simbolici di funzionare senza limiti. Il limite è quello che introduce l’oggetto prodotto. “Ciò a cui sembra aspirare una letteratura nell’ambizione di lituraterrare è di ordinarsi in un movimento che essa chiama scientifico. Vero è che la scrittura vi ha fatto meraviglie, e tutto lascia credere che tali meraviglie non siano prossime a esaurirsi. Tuttavia la scienza fisica si trova, si troverà riportata alla considerazione del sintomo nei fatti per via dell’inquinamento di quel terrestre che, ormai senza alcuna critica dell’Umwelt, viene chiamato ambiente.” [27]

Lacan critica la riduzione della considerazione degli effetti della scienza agli effetti sull’ambiente, perché significa limitarsi a prendere in considerazione solo ciò che circonda il corpo umano. Si tratta di rimettere al centro dell’attenzione la specie umana e il corpo dell’individuo, mentre si tratta di un effetto di discorso che, pur impossessandosi dei corpi, se ne libera nelle sue radici discorsive più profonde. Mettere al primo posto il corpo, l’Innenwelt, significa quindi, dice Lacan, comportamentalizzare o cretinizzare la considerazione da parte della scienza dei suoi sintomi sull’economia planetaria.

Gli sviluppi del discorso dell’ecologia negli ultimi quarant’anni hanno confermato l’affermazione di Lacan. Non si tratta più di lamentarsi dell’inquinamento ambientale. Più precisamente, ce ne lamentiamo sempre quando notiamo che l’inquinamento atmosferico non diminuisce nelle grandi città; ma l’effetto delle conseguenze ecologiche sulla civiltà va ormai al di là di ogni considerazione ambientale e si orienta verso scelte per la società nel senso più profondo del termine.

L’irrespirabile dell’inquinamento e il polmone psicoanalitico

Due anni dopo queste considerazioni sull’inquinamento e le sue relazioni con il sintomo, Lacan chiarisce in un intervento orale le relazioni dell’inquinamento come effetto di discorso e non dell’ambiente. L’irrespirabile dell’aria inquinata è presa come esempio degli effetti della scienza che rendono il mondo irrespirabile: “il discorso della scienza ha conseguenze irrespirabili per quella che si chiama umanità. L’analisi è il polmone artificiale grazie al quale si cerca di garantire ciò che si deve trovare come godimento nel parlare affinché la storia continui” [28]. Questo irrespirabile può essere inteso in modi diversi. Da un lato, la produzione di gas serra rende il pianeta irrespirabile. Inoltre, il riscaldamento globale produce effetti disastrosi che la scienza modellizza in modo tale che i rapporti dell’IPCC indicano le strade da seguire per evitare il peggio. D’altra parte, il discorso della scienza, con il suo determinismo esclusivo, schiaccia le particolarità in un vasto calcolo statistico che rende tutto insignificante, e che rompe con ogni grammatica dell’accidentale. Pascal lo rende perfettamente percepibile. Salva una dimensione del caso. Egli introduce la sua scommessa come la considerazione del caso cifrato della probabilità nell’esistenza. Il secolo è quello di una vera e propria “ossessione per il determinismo meccanico”. Ma proprio “l’Europa ha iniziato a comprendere i concetti di casualità, probabilità, caso e speranza nel preciso momento della sua storia in cui le opinioni teologiche sulla prescienza divina erano incoraggiate dai sorprendenti successi dei modelli meccanicistici”.[29] La scommessa di Pascal ci dà un’idea di quello che, della vita umana, può essere cifrato quando lo status di Dio è stato spostato. Di fronte al silenzio dello spazio infinito, [30] scommette sulla restaurazione di un Dio garante del caso. Sulla base della sua teoria del calcolo delle probabilità in un gioco d’azzardo, si affida al nuovo dio dei filosofi e degli scienziati per cifrare l’esistenza umana come una sfida. Nella sua scommessa, Pascal formula in anticipo ciò che Freud chiamerà la rinuncia pulsionale, a cui la civiltà costringe, ma attraverso ciò che non è repressione, bensì cifratura. La lettura di Lacan della scommessa di Pascal risponde agli sviluppi di Foucault sulla vanità di concepire la storia della sessualità attraverso la sua repressione. Lacan sottolinea, nella scommessa, la funzione della cifratura, la riduzione al valore: “la scommessa di Pascal (…) illustra in modo eccellente il rapporto fra la rinuncia al godimento e la dimensione della scommessa. La vita stessa, nella sua totalità, si riduce qui a un elemento di valore”.[31] L’esistenza del soggetto viene quindi definita da quell’oggetto prezioso e cifrato a cui il soggetto è destinato a rinunciare. Il soggetto non è più definito, come in Cartesio, dalla certezza del suo pensiero. Si definisce dalla certezza del valore di godimento a cui rinuncia. [32] Da un lato, il caso matematico raddoppia, imita l’imprevedibile della contingenza. Lo accompagna come la sua ombra: “Tra il caso imitato e il caso in natura c’è la stessa differenza che c’è tra un automa e un essere vivente”. [33] D’altra parte, il caso che sfugge alla matematizzazione apre la strada a un reale senza legge che Lacan manterrà per situare la contingenza propria del discorso psicoanalitico.

Sottolineando la contingenza del godimento rispetto alla determinazione scientifica, Lacan accentua la distanza tra i due e definisce un nuovo rapporto tra il discorso della psicoanalisi e quello della scienza. Questa dichiarazione sulla necessità di un polmone artificiale per respirare meglio, uno per uno, nel determinismo scientifico, ci ricorda che, nel corso della sua lunga storia, il discorso della scienza è sempre stato accompagnato da un artefatto. Nell’antichità era lo scetticismo. Alla fine del Medioevo, era la dotta ignoranza. Nel Rinascimento, fu la risata di Rabelais e il suo appello alla coscienza. “Ma poiché, secondo il saggio Salomone, la sapienza non entra in un’anima malvagia e la scienza senza coscienza non è altro che la rovina dell’anima, ti conviene servire, amare e temere Dio e riporre in lui tutti i tuoi pensieri e tutta la tua speranza”. [34] A questo si aggiungono il libero arbitrio di Erasmo e il Che so? di Montaigne.

La psicoanalisi non è né uno scetticismo né una religione. Come dice Lacan: “Essa procede dal medesimo statuto de La scienza. Essa si addentra nella mancanza centrale in cui il soggetto si sperimenta come desiderio”. [35] Affermare che il soggetto della psicoanalisi è lo stesso che il soggetto della scienza si accompagna alla funzione del soggetto supposto sapere, il Dio di Cartesio e la sua funzione di garanzia di verità eterne. Il respiro della psicoanalisi rispetto alla scienza consiste nel suo utilizzo della funzione del soggetto supposto sapere. Ne fa uso per poterne fare a meno alla fine. È una pulsazione originale nel suo accompagnamento della scienza. Mette a nudo il godimento particolare in funzione di causa, nello stesso momento in cui si lascia ingannare dalla funzione del padre come finzione di garanzia del senso. Alla fine dell’analisi, la causa sussiste e il soggetto supposto sapere è destituito. Qui s’insinua il respiro rispetto alla scienza. Il soggetto trova la strada della sua particolarità nell’esperienza singolare della psicoanalisi, ma non è la particolarità esaltata dell’aristocratico. È la particolarità di un orrore incontrato. È ciò che Lacan ha chiamato “essere post-joyciano”. [36]

Traduzione: Adele Succetti

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[1] Cfr. S. Freud, “Progetto di una psicologia”, Opere, Vol. II, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, pp. 201-284.

[2] J. Lacan, “Il trionfo della religione”, Dei Nomi-del-Padre seguito da Il trionfo della religione, Einaudi, Torino, 2006, p. 95.

[3] Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 2015.

[4] J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 1994, pp. 407-408.

[5] Ivi, p. 407.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] Cfr. G. Canguilhem, “Qu’est-ce que la psychologie?”, Revue de Métaphysique et de Morale, 1(1958), pp. 12-25.

[9] J. Lacan, “La scienza e la verità”, Scritti, Einaudi, Torino, 2002, p. 864.

[10] J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi, op. cit., p. 407.

[11] Ibidem.

[12] Ivi, p. 408.

[13] Ibidem.

[14] Cfr. Anonimo. La Dispute sur le sel et le fer, Paris, Les Belles Lettres, 2010.

[15] Cfr. G. Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, Raffaello Cortina, Milano, 1995.

[16] Cfr. K. Gödel, “Sulle proposizioni formalmente indecidibili dei Principia mathematica e di sistemi affini”, in E. Nagel, J. R. Newman, La prova di Gödel, Bollati Boringhieri, Torino, 2013. 

[17] Cfr. J. Lacan, “Scienza e verità”, op. cit., p. 880.

[18] Cfr. R. Monk, Robert Oppenheimer. A life Inside the Center, New York, Doubleday, 2013.

[19] Cfr. A. Pais, J. Robert Oppenheimer. A Life, Oxford, Oxford University Press, 2006; K. Bird, M. J. Sherwin, American Prometheus. The Triumph and tragedy of J. Robert Oppenheimer, London, Atlantic Books, 2021; P. J., McMillan, The Ruin of J, Robert Oppenheimer and the Birth of the Modern Arms Race, Baltimora, Johns Hopkins University Press, 2018; J. Bernstein, Oppenheimer. Portrait of an enigma, Chicago, Ivan R. Dee Editore, 2004.

[20] G. Johnson, “What made him tick?”, New York Times, 28 giugno 2013, disponibile online (traduzione dell’autore).

[21] Cfr. R. Goldstein, Incompleteness. The Proof and paradox of Kurt Gödel, W.W. Norton & Company, New York, 2006.

[22] J. Lacan, Il Seminario, libro VII, L’etica della psicoanalisi, op. cit., p. 408.

[23] J. Lacan, “Il trionfo della religione”, op. cit., p. 96.

[24] Acronimo di Intergovernmental Panel on Climate Change.

[25] J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi, op. cit., p. 408.

[26] J. Lacan, “Lituraterra”, Altri scritti, Einaudi, Torino, 2013, p. 14.

[27] Ivi, p. 17.

[28] J. Lacan, « Déclaration à France Culture à propos du 28° Congrès International de Psychanalyse », in Le Coq-Héron, nº 46/47, 1974, p. 8. Da ascoltare: “Intervento di Jacques Lacan nel dicembre 1973″, Radio Lacan, su internet.

[29] I. Hacking, L’Émergence de la probabilité, Paris, Seuil, 2002, p. 27.

[30] Cfr. B. Pascal, Pensées, Seuil, Paris, 1963, p. 528 : « Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie ».

[31] J. Lacan, Il Seminario, Libro XVI, Da un altro all’altro, Einaudi, Torino, 2019, p. 12.

[32] Ibidem.

[33] B. Saint-Sernin, « Hasard », Encyclopaedia Universalis, Paris, 1968, p. 258.

[34] Cfr. F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, Einaudi, Torino, 2004.

[35] J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 2003, p. 261.

[36] J. Lacan, “Joyce il sintomo”, Altri scritti, op. cit., p. 562.