Rosanna Tremante, Membro della SLP e dell’AMP, Torino

_______

Testo presentato alla conferenza organizzata dalla Segreteria di Torino della SLPcf il 16 dicembre 2022 dal titolo: Il valore dell’autostima. Che cosa ne dicono degli psicoanalisti?

“Là dove penso io non mi riconosco, non sono – è questo l’inconscio.
Là dove sono è fin troppo chiaro che io mi perdo”1

La prima risposta che mi è venuta in mente quando mi è stato proposto il titolo della conferenza, ovvero Il valore dell’autostima, è stata: 42! Per coloro che non avessero letto la Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams 42 è la risposta che il computer Pensiero Profondo dopo un’elaborazione durata sette milioni e mezzo di anni dà alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto.

Insomma la prima risposta è stato un numero, anzi dei numeri perché subito dopo ho pensato che una delle mie trasmissioni radiofoniche preferite si intitola 610.

Sì perché valore e stima rinviano anche a questioni come il prezzo.

Si tratta dunque di darci un prezzo?

Scrive Rosa Elena Manzetti: “Il valore del soggetto stesso è giudicato secondo il mercato, perché senza plus-valore si è ritenuti «essere nessuno».  Inoltre il plus-valore si converte spesso in meno-valore: molto facilmente infatti compare sulla scena qualcuno ritenuto avere un valore più alto. Uno via l’altro, in una specie di cerchio in cui non ci sono più posti simbolizzati, la cui conseguenza è un’azione omogeneizzante. Il capitalismo favorisce perciò la rivalità e la competizione piuttosto che un legame sociale. In questo modo ciascun soggetto subisce l’imperialismo del «sempre di più» che lo condanna a una corsa tanto infinita quanto insoddisfacente”.2

Volersi sempre più bene, voler bene a se stessi, realizzarsi hanno preso oggi il posto dell’amore per il prossimo. Autonomia, indipendenza dall’Altro sono i nuovi valori.

Autosfera

“L’idea immaginaria di un tutto così come è data dal corpo […] che, al limite, diviene sferico, è sempre stata utilizzata in politica, dal partito del predicozzo politico. Che c’è di più bello ma anche di meno aperto? Che c’è di più simile alla chiusura del soddisfacimento?”3

Il mito di un’unità primitiva è il mito raccontato da Aristofane nel Simposio di Platone per tessere le lodi del Dio amore.

Nel testo Aristofane inizia a parlare dopo Eressimaco al quale ha dovuto cedere il turno di parola poiché è stato assalito dal singhiozzo. Questo singhiozzo è un fenomeno particolare e fa spazio al discorso di un medico.4 Il medico parla al posto del “malato” al quale sono assegnate varie indicazioni, l’ultima delle quali, lo starnuto, sarà quella che si rivelerà efficace.

Aristofane commenta: “Veramente è passato solo con lo starnuto, tanto che io mi meraviglio come il corpo umano, così ben fatto, abbia proprio bisogno di tanto rumore e solleticamenti, come lo starnuto”.

La questione della forma sferica di un essere uguale a se stesso da ogni parte, senza confini e “che gioisce di avvolgente solitudine sovrana, soddisfatto del proprio compiacimento, della propria sufficienza”5 è una questione che attrae il pensiero con una tale presa da non consentire per secoli che si prendesse atto della forma ellittica delle circonvoluzioni dei pianeti, per quanto essa fosse stata sospettata già nell’antichità.

Un’illusione perché la sfera come l’immagine allo specchio, non ha buchi, è una superficie piana.

Ma sono proprio i buchi del corpo, quelli che producono rumore, solleticamenti e anche odori, e sono sempre i buchi (bocca, ano, occhi e orecchie) che consentono uno scambio con il mondo e al tempo stesso vi si oppongono, esiliando il corpo da un rapporto armonioso con il mondo, con gli altri e con se stesso.

Per questo un’immagine completa e soddisfacente non può che essere illusoria, alienante e temporanea come testimoniano i pezzi del corpo che sono sopportabili solo quando sono inclusi nella nostra immagine narcisistica ma che quando sono fuori dal corpo la infrangono. Basta pensare ai capelli e i peli nel lavandino, piuttosto che alle parti del corpo amputate, come nelle immagini di alcune Sante.

Oppure come un uomo che ascoltavo questa mattina e che è arrivato a cogliere che nel suo mantenere doppie relazioni si trova a collocare la morale da una parte e l’immondizia dall’altra.

È così che constata che volere e desiderare non si incontrano. Vorrebbe non tradire la moglie e mantenere quell’immagine stimabile che ha ma qualcosa fa costantemente capolino e infrange la rispettabilità che vorrebbe.

Non può che venirne a dire per cogliere l’eco che c’è del pulsionale che abita il suo corpo e che costruisce dei circuiti proprio a partire da quegli orifizi che bucano l’immagine.

Autoritratto

“– Che fai? – mia moglie mi domandò vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.

– Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.

Mia moglie sorrise e mi disse:

– Credevo ti guardassi da che parte ti pende.

Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:

– Mi pende? A me? Il naso?

E mia moglie placidamente:

– Ma sì, caro. Guardatelo bene: ti pende verso destra. […]

Così seguitando, sprofondai in quest’altra ambascia: che non potevo, vivendo, rappresentarmi a me stesso negli atti della mia vita; vedermi come gli altri mi vedevano; pormi davanti al mio corpo e vederlo vivere come quello di un altro. Quando mi ponevo davanti a uno specchio avveniva come un arresto in me; ogni spontaneità era finita, ogni mio gesto appariva a me stesso fittizio o rifatto.

Io non potevo vedermi vivere”.6

È Vitangelo Moscarda che parla il protagonista del romanzo Uno, nessuno, centomila di Pirandello.

Quel che si mette in gioco è il rapporto tra realtà e finzione, verità e menzogna, quel che si vorrebbe essere e quel che si è.

Scrive Lacan nel testo L’istanza della lettera dell’inconscio: “Non si tratta di sapere se parlo di me in modo conforme a ciò che sono, ma se, quando ne parlo, sono lo stesso che colui che parla”.7

L’inconscio fa capolino, può essere non riconosciuto, negato, ma i suoi effetti si avvertono, in particolare a livello del godimento, che non è mai quello che dovrebbe essere sempre più o meno, sempre in eccesso o in difetto.

Per questo ogni autoritratto, potremmo dire, non può che essere continuamente ritrattato e oggi con gli strumenti che abbiamo anche ritoccato.

 

Autore

“Ho in mente una stranezza che è diventata quasi un’ossessione…”. È così che enuncia Pirandello, Toni Servillo, nel film di Roberto Andò che racconta il percorso che l’autore compie per arrivare a dare forma al suo dramma teatrale Sei personaggi in cerca d’autore.

Realtà e finzione, attore e personaggio, sono in una dialettica costante nel film e lo sono, come sappiamo, anche nel testo di cui il film stesso narra il concepimento artistico.

Il film mette in scena la morte della balia di Pirandello e al contempo la vita dei personaggi che incontra costantemente e che gli domandano udienza. I personaggi sopravvivono – come sopravvive il nome in una lapide –, anche quando la vita biologica termina. Al contempo però come un attore non è il suo personaggio, nessuno di noi è l’immagine che si è costruito, le foto che ha postato, i like, le onorificenze e i titoli che ha ricevuto e così via.

Cosa resta?

Non resta che farsi autore del personaggio che animiamo. Assumere lo iato che resta tra volere e desiderare, tra enunciati e enunciazione, tra Io e soggetto dell’inconscio, tra immagine e godimento.

E questo avviene ogni volta che accogliamo quel che diciamo al di là di quello che volevamo dire, gli atti che manchiamo al di là di quello che volevamo fare ma anche quel che sogniamo che non sempre è quel che volevamo sognare.

“Così volevo io esser solo. Senza me. […] Solo con un certo estraneo che già sentivo oscuramente di non poter più levarmi di torno e ch’ero io stesso: l’estraneo inseparabile da me”.8

Si tratta dunque forse più di dar valore a questa sorta di etero-stima, a questa stranezza che ci abita e che ci rende intimamente estranei a noi stessi, con la possibilità di venirne a sapere qualcosa in après-coup grazie ad un ascolto singolare.

_____

[1] J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970), Einaudi, Torino 2001, p. 124.

[2] R.E. Manzetti, L’indifferenza è il peggio, in Rete Lacan n. 49.

[3] J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi cit., p. 29.

[4] J. Lacan, Il Seminario, Libro VIII, Il transfert (1960-1961), Einaudi, Torino 2008, p. 69.

[5] Ibid., p. 100.

[6] L. Pirandello, Uno nessuno e centomila, Einaudi, Torino 1994, pp. 3sg.

[7] J. Lacan, L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud (1957), in Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 512.

[8] L. Pirandello, Uno nessuno e centomila cit., p. 17.