Maria Laura Tkach
Nello scritto La direzione della cura e i principi del suo potere, nel paragrafo IV, intitolato Come agire col proprio essere, interrogando l’azione dello psicoanalista, Lacan introduce come questione “il desiderio dell’analista” [1] per rendervi conto.
Tutto lo scritto è un’interrogazione sulla cura e sull’azionare dell’analista in essa, ma nei punti quattro e cinque di questo paragrafo vi troviamo in modo condensato alcune formulazioni particolarmente illuminanti e molto attuali.
In primis, il titolo del paragrafo segnala una presa di posizione netta e fondamentalmente differente tra, da una parte, le psicoterapie ed altri orientamenti analitici e, dall’altra, l’orientamento di Lacan. Se lo psicoanalista agisce col proprio essere, ciò vuol dire che egli non agisce utilizzando delle tecniche, né il controtransfert (quest’ultimo non poggia sull’essere, ma sull’io, conscio o inconscio). Questo postulato scarta anche la possibilità di fondare la propria azione come analista sostenendola sull’identificazione, alla fine di un’analisi didattica, al proprio analista.
L’analista – e il candidato analista – orientato dall’insegnamento di Lacan, non potrà che interrogarsi, per tutta la sua formazione e oltre, su cosa possa voler dire agire col proprio essere, poiché è verso questo punto, quello dell’essere, quello su cui Lacan fa volgere la nostra attenzione quando si tratta dell’azionare analitico.
Egli scrive: “Il proprio livello operativo l’analista lo deve trovare nel rapporto con l’essere (…)”. E poco più avanti, nominando in qualche modo ciò che dell’essere potrebbe rendersi operativo per agire come analista: “Va formulata un’etica che integri le conquiste freudiane sul desiderio: per mettere in capo ad essa la questione del desiderio dell’analista”. [2]
È, dunque, desiderio dell’analista, questo nuovo concetto tutto lacaniano, il nome col quale possiamo chiamare quella parte del proprio essere con cui l’analista opera nelle cure, ciò a partire da cui interviene, risponde, in relazione al parlessere che gli si rivolge.
L’essere è sfuggevole, non del tutto dicibile. Ancor di più, l’essere dell’analista, che è una funzione, un operatore.
L’esperienza analitica ha contribuito però a circoscrivere un campo dell’essere. Il soggetto è l’oggetto al quale, nel suo fantasma fondamentale, egli è identificato, scrive Lacan. E quest’identificazione non fa che mostrare la patologia della china su cui è spinto [3]. Lo psicoanalista non è esente da questa patologia.
Egli l’ha attraversata e smontata nella sua analisi. La conclusione dell’analisi l’ha portato fino al punto di non essere più identificato in modo fisso all’oggetto del fantasma.
La fine dell’analisi gli ha consentito di realizzareche egli non è quell’oggetto di godimento, che esso era un sembiante del reale. Oggetto dinanzi al quale il soggetto soccombeva nell’angoscia e però rispetto alla quale esso era, allo stesso tempo, il suo ultimo baluardo.
Alla fine dell’analisi il soggetto – o il parlessere – si è liberato della prigionia dell’oggetto, non vi è più quella specie di saldatura immaginaria tra l’uno e l’altro.
Il suo essere, il soggetto lo faceva coincidere con l’oggetto; ora, una volta liberatosi, ecco che si ritrova in una condizione di dis-essere.
Di dis-essere rispetto all’oggetto, ma non rispetto al godimento. L’analisi l’ha portato ad abbandonare le identificazioni di godimento narcisistico, ma rimane come resto un godimento impossibile da azzerare, unico, singolare. Un godimento autonomo da qualsiasi identificazione, irriducibile al significante. Alla fine dell’analisi, il parlessere poggia su questo suo sgabello di godimento, che è diventato il suo sinthomo.
Nella funzione analista, egli non potrà che servirsene.
Non di certo come vi si serve nella propria quotidianità di parlessere, ma forse in parte anche sì.
Cosa vuol dire, come dice Lacan, che alla fine dell’analisi il parlessere è identificato al proprio sinthomo? Che non gli resta che quel godimento unico e singolare ed un certo modo di farci che ogni volta ci trova, il sinthomo, appunto.
Nelle cure, ad ogni incontro, ad ogni seduta, come analisti, non troviamo ogni volta un modo di fare con il reale? Un modo di fare che non risponde ad una tecnica, né a dei protocolli, e neanche a ciò che crediamo di aver potuto imparare dall’esperienza. Rispondiamo al reale, a quello dell’analizzante, ogni volta in modo inedito, senza appigli e senza riferimenti ad altro, se non al discorso per come si mette in atto.
Il desiderio dell’analista, possiamo forse intenderlo come quella funzione discontinua, che l’analista mette in atto lì, dove e quando è opportuno, acchiappando nel discorso lembi del reale dell’analizzante, poggiando su un vuoto, il proprio.
[1] J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere (1958), in Scritti, Einaudi, Torino, 1974, p. 610.
[2] Ibid.
[3] Ibid.